Dietro il subdolo manifesto di Medicina di genere si nascondono tanti “nuovi diritti”
«La scienza ci dice che le terapie non sono un capo unisex. La ricerca e la farmacologia devono intervenire perché il diritto alla salute delle donne sia garantito quanto quello degli uomini». È il manifesto di Medicina di genere, divulgato e promosso il mese scorso dall’Ordine dei medici di Milano. Il manifesto parla dell’obiettivo di tutelare le donne come diverse dagli uomini, per cui si devono sottolineare «le evidenze scientifiche della differenza tra i due generi-sessi ormai numerosissime», per «inserire il genere nei curricula studiorum a tutti i livelli» e per «aumentare la consapevolezza degli operatori sanitari sul sesso-genere», così «da fornire ad entrambi i generi la migliore cura possibile», quando «le differenze di genere e di sesso evidenziate siano rilevanti». Pertanto, secondo il manifesto, occorre abbattere al più presto «la disuguaglianza di genere». Ma l’azione si spinge anche più in là. Chiedendo che anche nei luoghi di lavoro «le specificità di genere siano ben gestite».
Il manifesto nei giorni scorsi è diventato anche oggetto del dibattito nazionale. Roberto Di Giovan Paolo e Fiorenza Bassoli, senatori del Pd, hanno chiesto un esplicito impegno del governo a favore della medicina di genere. Hanno aderito deputati e senatori, d’accordo con il fatto che «ci sono sempre più evidenze scientifiche che maschi e femmine non sono uguali davanti alla stessa malattia». Il lodevole obiettivo di tutelare la differenza tra uomini e donne sembra chiaro. Se non fosse per la parola “genere”, che fa da leitmotiv al manifesto e che si chiede di introdurre nell’ordinamento giuridico italiano. Una parola usata dalle legislazioni straniere che hanno voluto raggiungere lo scopo opposto a quello che sembra emergere dal manifesto. “Genere/gender” è infatti un termine usato proprio per contrapporsi al riconoscimento delle differenza naturale tra uomini e donne, mirando a misconoscere la diversità biologica esistente tra maschio e femmina: si può essere del “genere sessuale” che si vuole, a prescindere dal proprio corpo.
Qualche dubbio sorge anche guardando gli obiettivi e i membri delle associazioni promotrici. La prima è “E-quality”, che si batte apertamente per la promozione dei diritti degli omosessuali e il cui presidente è Aurelio Mancuso, l’ex presidente di “Arcigay”. La seconda organizzazione è “Donne in rete”, la cui presidentessa è Rosaria Iardino, lesbica dichiarata e promotrice dei diritti omosessuali. La terza associazione, Giseg, fa parte di una rete internazionale che riceve fondi per sponsorizzare la pianificazione familiare, i diritti riproduttivi (aborto-contraccezione-scelta dell’identità di genere) e promuovere il modello dell’educazione sessuale di Stato. Se le organizzazioni citate vogliono perseguire la loro mission, perché nasconderlo? Se si ritiene un’azione umanitaria quella di tutelare i diritti di chi si sente donna o uomo a prescindere dalla biologia, perché non dichiararlo apertamente? E perché non discutere democraticamente anziché introdurre strategicamente e in modo subdolo la tutela dei generi nell’ordinamento?
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