
Caro direttore, mi permetto di rispondere a Elisabetta Motta che scriveva a Mons. Camisasca e così in un certo senso mi permetto di contribuire anche all’intervento di quest’ultimo. Ritengo inoppugnabile che desiderare e cercare un figlio non sia legato in primis ai servizi disponibili; anche per me, non ho desiderato la mia prima figlia perché c’erano asili nelle vicinanze. Devo però aggiungere che la carenza dei servizi e più ampiamente la solitudine in cui la madre – perlopiù – è oggi lasciata nel crescere i figli, in particolare i neonati, mette a dura prova il pur non sopito desiderio di averne altri.
La triste realtà dei fatti oggi è infatti questa: il nido spessissimo fa ciò che il papà e i nonni non fanno (non perché siano disinteressati, nella maggior parte dei casi, ma perché impediti da orari di lavoro o dalla distanza) cioè condividere con la mamma la fatica della cura delle bambini. La solitudine che citavo delle giornate passate con i neonati, l’assenza o quasi di rapporti che quotidianamente alleggeriscano, semplicemente condividendola, la gestione familiare rende il nido un approdo agognato, se si ha la cura e la fortuna di trovare un luogo educativamente valido, naturalmente.
Finalmente non è più tutto sulle spalle materne e la madre può ridare un po’ di spazio alle necessarie relazioni significative con gli adulti – al lavoro ma non solo – relazioni che altrimenti – non esagero – accade che rasentino i 20 minuti al giorno, quando il marito rientra dal lavoro alla sera, prima di crollare a letto, quando si incontrano al parco altre mamme, inseguendo i bambini che giustamente chiedono attenzione. Questa è l’esperienza e il pensiero di moltissime neo-mamme, tra cui la sottoscritta, da cui credo nasca la “battaglia per i nidi”, che in questa luce assume contorni più comprensibili e realisti.
Cordialità
Cecilia Tornaghi
Cara Cecilia, quel che racconti è semplicemente vero e qui si tratta, io credo, di intendersi bene. Contrapporre servizi (gli asili, per esempio) e ideali (la consapevolezza che un figlio «fa diventare una vita nuova», come ha scritto monsignor Camisasca rispondendo sul mensile alla lettera che citi) è l’errore da evitare. Servono gli uni e gli altri, perché la vita è fatta degli uni (la concretezza delle cose) e degli altri (i motivi che ci spingono a fare determinate scelte).
Credo che la lettrice Elisabetta volesse reagire a una certa enfasi che, soprattutto negli ultimi anni, si è posta sulla questione della denatalità che, avendo ormai assunto i contorni che conosciamo, tende a essere “risolta” come un mero problema di “fornitura di servizi”. I servizi servono, spesso sono essenziali, ma sono una “parte” della questione, come mi sembra dica Camisasca.
È l’impostazione che abbiamo cercato di dare anche al nostro convegno a Roma cui ha partecipato la ministra Roccella. Abbiamo ragionato a partire dai numeri, abbiamo fatto parlare le aziende che hanno messo in campo un welfare aziendale intelligente, ma abbiamo discusso con la ministra anche di che “cosa” mai dovrebbe spingere oggi una coppia a volere un figlio. Bisogna cioè parlare di entrambe le cose: della “s” di servizi, ma anche della “s” di speranza. Perché per iniziare (e “nascere è cominciare”, come diceva la Arendt), serve soprattutto la seconda.