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«Dell’Utri? Il concorso esterno è un reato troppo “scivoloso” da provare»

Intervista a Riccardo Arena, cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia: «Non mi aspettavo la decisione della Cassazione. La sentenza d'appello mi pareva motivata, ma sul reato si scontrano due scuole di pensiero».

Chiara Rizzo
13/03/2012 - 8:50
Interni
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La decisione della Cassazione di annullare con rinvio la sentenza d’appello di condanna di Marcello Dell’Utri ha sorpreso Riccardo Arena, cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia (e corrispondente da Palermo de La Stampa), che ha seguito le udienze di questo processo. «La sentenza era stata scritta tra l’altro da un giudice che non è considerato un estremista, e la corte d’appello si è comportata con equilibrio, per cui era una sentenza che valeva doppio per l’accusa» spiega a tempi.it.

Non si aspettava la decisione di annullare la condanna in appello a Dell’Utri?
Aspetto di leggere le motivazioni, ma il processo d’appello appariva abbastanza solido. Invece la Cassazione ha rimesso in discussione le regole che sono state applicate.

Secondo il procuratore generale di Cassazione, l’unico di cui si conoscano per ora le motivazioni alla richiesta di rinvio, la sentenza d’Appello «non tocca il fatto»: «Non si intende contestare ciò che dicono i pentiti, non si valutano le prove, e si prende faticosamente per vero ciò che hanno detto. Pacificamente la condotta dell’imputato si iscrive in una vicenda estorsiva, quindi si sarebbe dovuto, logicamente, contestare l’estorsione e poi il concorso esterno. Invece si è passati ad un’imputazione indeterminata. Non si può sub-delegare al pentito di formulare l’accusa». Che ne pensa?
Che la sentenza d’appello sia motivata male lo dice il Pg, e io non ho le sue conoscenze tecniche per contestarlo. A me però è parsa convincente e fondata nella ricostruzione tutta l’attività compiuta da Dell’Utri dal 1975 al 1992. Se si vanno a rileggere le parole usate dallo stesso Dell’Utri in due lunghi interrogatori del giugno-luglio ’96 davanti ai pm di Palermo, si vede che lui stesso sostanzialmente aveva compromesso l’esito del processo. Dell’Utri, infatti, in quelle due occasioni ha confermato di conoscere determinate persone, Vittorio Mangano e Antonino Cinà. I contatti e le interlocuzioni, il fatto di portare queste persone a Milano per un lungo periodo e che le persone lì delinquessero sono stati considerati dai giudici di secondo grado come indicativi di un comportamento anche in Dell’Utri. Del resto nell’ambito del concorso esterno il comportamento del colletto bianco è di difficile valutazione, bisogna basarsi su elementi sintomatici. Inoltre a mio avviso, Dell’Utri ha commesso un errore abbastanza grave, sostenendo di avere paura di Vittorio Mangano davanti ai magistrati. E dieci minuti dopo l’interrogatorio, davanti ai microfoni della Rai, dicendo invece che «Ci andrei a prendere un caffè». Era un modo di lanciare un messaggio trasversale a Mangano, secondo l’interpretazione poi emersa: “Stai tranquillo. Non ti comprometto”.

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Cosa ne pensa di quello che è emerso ora, con Luciano Violante che chiede una regolamentazione più esplicita del reato di concorso esterno, e altri magistrati che criticano duramente la sentenza della Cassazione?
Il guaio di questi processi è quello di riempirli di fatti specifici di volta in volta. Mi spiego con un esempio: l’ex governatore della Regione siciliana Totò Cuffaro si è dimesso perché è stato condannato per favoreggiamento, prima semplice e poi aggravato. Mentre l’accusa di concorso esterno per l’attuale governatore Raffaele Lombardo è stata per due volte archiviata. C’è anche un processo per il concorso esterno a Cuffaro, ed è ben lungi dalla conclusione. Nel caso di Dell’Utri sono risultate provate per ben due gradi le amicizie, le frequentazioni, le cene, con mafiosi.

Secondo il pg Iacoviello, però, non basta essere amici per provare di aver agevolato l’associazione mafiosa, come prevede il reato di concorso esterno: in questo caso, infatti, secondo il pg non si capirebbe in che cosa ha mediato Dell’Utri con la mafia. «Si è mai visto che in un’estorsione (per di più mafiosa) c’è una mediazione tra autore e vittima? Che estorsione è? Sarebbe una singolarità che la mafia abbia bisogno di un mediatore».
Nelle estorsioni degli ultimi 15 anni è emerso che c’è sempre la figura di un “finto” amico della vittima, che agisce come mediatore per conto della mafia. Un esempio terra terra. Si comincia da un segnale al commerciante, che anziché denunciare, cerca un amico per capire cosa succeda. L’amico allora si propone di intervenire per far pagare di meno: ebbene in tutti questi casi ci sono state sentenze di condanna per un concorso di estorsione. Nel caso di Dell’Utri si andava oltre l’estorsione, perché la tesi è che lui ha fatto da collegamento tra l’imprenditore amico Berlusconi, e la criminalità. Ci sono stati altri casi molto clamorosi di annullamento con rinvio, persino di sentenze di assoluzione: la Cassazione l’ha fatto di recente per Giovanni Mercadante, accusato di concorso esterno. Intendiamoci non voglio apparire colpevolista, ma non penso che con l’annullamento della sentenza si possa dire che il reato non esiste.

Questo lo dice in conclusione anche il pg: «L’annullamento non vuol dire che l’imputato è innocente, ma che la motivazione è sbagliata. Non che la sentenza è sbagliata».
Va detto che molto spesso le filosofie dei magistrati si sono scontrate, come nel caso di Cuffaro. Tra i magistrati, infatti, c’è chi sostiene che bisogna mettere assieme una serie di episodi e amicizie, elementi sintomatici che si sommano e da cui si può ritenere che ci sia stata la mafiosità e l’intento di rafforzare l’organizzazione. L’altra scuola di pensiero ritiene invece che bisogna verificare un singolo reato specifico, un reato cosiddetto “fine” come l’estorsione nel caso di Dell’Utri, o la rivelazione di segreti, e contestare questi singoli reati. Questo è il metodo usato nel caso del processo Cuffaro, che ha dimostrato che questa filosofia “paga” l’accusa. Dall’altra parte, non uno dei grandi processi imbastiti dalla Procura di Palermo guidata da Giancarlo Caselli ha avuto un risultato. Lo stesso processo Andreotti, sebbene sia finito con la prescrizione, di fatto ha visto un proscioglimento e un’assoluzione. Il reato di concorso esterno è scivoloso e la magistratura inquirente dovrebbe riflettere, per capire se non convenga trovare un reato più concreto. Secondo il mio modesto avviso non bisogna affezionarsi alle tesi accusatorie.

Tags: mafiaMarcello Dell'UtriRiccardo ArenaSilvio Berlusconitoghe
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