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Il metodo Travaglio? È il giornalismo del “copia&incolla”. Ad esempio sul caso Del Turco

«Per i giornalisti è più facile appoggiarsi alle tesi della procura, perché non devono fare la fatica di leggersi tutti gli atti». Intervista a Roberto Rossi, cronista dell'Unità

Chiara Rizzo
01/08/2013 - 6:30
Interni
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Roberto Rossi, cronista dell’Unità, è stato tra i primi a mettere in discussione la ricostruzione dell’accusa contro Ottaviano Del Turco, al processo Sanitopoli Abruzzo (in cui lo scorso 22 luglio l’ex governatore è stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo per corruzione, anziché per concussione, come inizialmente avevano chiesto i pm). «Io non ho voluto difendere un politico – racconta Rossi a tempi.it –: ho solo preso un caso emblematico e l’ho studiato. Ho letto le carte, ho ascoltato in udienza alcuni testimoni. Cose che invece non hanno mai fatto altri giornalisti che pure hanno commentato la vicenda. Travaglio dov’era durante il dibattimento?».

In un editoriale del 24 luglio, Travaglio l’ha citata, in compagnia dei giornalisti del Giornale e del Foglio. Travaglio sostiene che quando si parla di politici, tutti tendono sempre a gridare al complotto, a fare paragoni col caso Tortora. E poi ha accusato: «Per criticare le sentenze bisogna conoscere qualche carta, oltre al diritto e alla logica. Invece qui si dicono scemenze da Guinness». Cosa risponde?
Io le carte le ho lette. Non ho mai scritto di un nuovo caso Tortora, ma ho messo in risalto che le prove contro Del Turco sono inadeguate alla condanna, ho posto dei dubbi proprio parlando delle carte processuali. Carte che Travaglio invece non ha letto; è evidente che ha fatto un copia e incolla per sostenere le sue tesi, ed è evidente anche da dove ha copiato.

In che senso «ha copiato»?
Una delle sue fonti è stato l’articolo, sbagliato, di Giuseppe Caporale su Repubblica: Travaglio a sostegno delle sue tesi scrive che le foto erano false. Questa è la medesima frase riportata dall’articolo di Repubblica, che però è sbagliata. In aula non è mai stato detto né dall’accusa né dalla difesa che le foto fossero false. Per le due parti il nodo è stata la datazione di quelle foto, che per l’accusa risale al 2 novembre 2007. Purtroppo l’articolo di Repubblica riportava un’informazione sbagliata, e pazienza che per tanti giornalisti Repubblica faccia giurisprudenza come la Cassazione. Se Travaglio fosse stato in aula avrebbe saputo di commettere un errore riportando quell’informazione. In aula si è molto discusso delle foto ma mai nel senso in cui ne parla il vicedirettore del Fatto. Anche la perizia commissionata dal Tribunale e super partes dice che le foto sarebbero del 2007, ma non esclude nemmeno che qualcuno abbia potuto ritoccare le date.

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Lei scrive su un giornale di sinistra e si è trovato, su questo caso, d’accordo con la linea di giornali di destra.
È vero, mi sono trovato dalla stessa parte del Giornale, cosa che non mi sarei mai aspettato. Questo la dice lunga sul fatto che qualche dubbio sulla ricostruzione dell’accusa a Del Turco nei cronisti c’era. Anche la Stampa ha sollevato parecchi dubbi, mentre il Corriere, inizialmente si è disinteressato, mentre verso la fine del dibattimento ha sollevato delle critiche. Per quanto mi riguarda, io non ho mai gridato al “complotto”: semplicemente sostengo che, se per l’imputato Sabatino Aracu (Pdl) c’è un’intercettazione in cui esplicitamente chiede dei soldi ad Angelini, evidenze del genere per Del Turco non ce ne sono, sebbene, per ora, la sentenza sembri contraddirmi.

Lei come ha seguito il processo a Del Turco?
Ho seguito in aula le testimonianze di Angelini e Del Turco, le arringhe dei difensori e la requisitoria dei pm. Per i giornalisti è più facile appoggiarsi alle tesi della procura, perché non comporta la fatica di leggersi tutti gli atti: basta solo mettere le parole in bocca al pm. Ben diverso è seguire le testimonianze. Angelini è uno che ha cambiato versione più volte. Ci ha messo due anni prima di ricordare che aveva scritto tutte le date degli incontri con Del Turco. Questo, secondo lei, non è una fatto da evidenziare nel resoconto giornalistico?

Ovviamente sì.
Invece ho visto i colleghi dei giornali maggiori, tipo Corriere e Repubblica, calare dall’alto su questo caso, raccogliere alcune informazioni e poi legarle insieme a modo proprio. Anche il Fatto ha seguito, parzialmente, con un collaboratore, la vicenda. Tra l’altro, il primo collega – che non era colpevolista – è stato sostituito con un altro giornalista.

Perché, secondo lei, c’è questo atteggiamento nei media?
Difficoltà ambientale. Difendere un presunto corrotto, o cercare di spiegare che tutte le prove che lo hanno portato in carcere, è difficile in questo momento storico in Italia. Significa andare controcorrente, contro il mainstream dominante. Quindi anche i giornalisti ci vanno cauti. Sanno che difendere un politico potrebbe portare via delle copie.

Ma non è che si tratta di una sentenza già “scritta” prima del processo, perché magari la procura di Pescara ci teneva a chiudere bene una vicenda apertasi con molto clamore mediatico? Si è avvertita in qualche modo una certa pressione sui media dalla procura di Pescara?
Questo non glielo so dire. Ripeto: non credo in nessun complotto. Da giornalista rilevo solo che, nel giorno della sentenza, in aula per la lettura del dispositivo si è presentata tutta la procura, non solo i pm che hanno condotto l’accusa. Un fatto anomalo, e per altro si è presentato anche l’ex procuratore capo Nicola Trifuoggi, che è in pensione, altro fatto molto raro.

Tags: l'unitàmarco travaglioOttaviano Del Turcopescaraprocessosanitopoli Abruzzotangentitravaglio
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