Declino o decadenza? Comunque si risponda all’interrogativo, non v’è dubbio che l’Italia stia attraversando una delle fasi più drammatiche della sua storia. Sotto il governo Prodi il nostro paese ha conquistato diversi record. Politicamente parlando, per esempio, sorprende che l’esecutivo del Professore sia riuscito a dissipare in così breve tempo lo scarso consenso di cui godeva già all’indomani della risicata vittoria elettorale. Secondo i sondaggi di Repubblica, quotidiano non certo antigovernativo, il 45 per cento di italiani che si dichiaravano “molto/abbastanza” fiduciosi nell’ottobre 2006 si è ridotto al 30 nell’ottobre 2007. Naturalmente tale sfiducia sembra dipendere da una politica governativa che ha dimostrato ampie capacità di performance in ogni aspetto della vita degli italiani. Tanto per ricordarne un paio, di queste performance: la pressione fiscale ulteriormente inasprita (l’incremento è stato di 2 punti percentuali secondo Bankitalia) e, stando ai dati Caritas diffusi il 31 ottobre scorso, la mancata regolamentazione dei flussi migratori (e conseguente mancata politica della sicurezza) che ha permesso che 700 mila stranieri si stabilissero in Italia nel solo 2007 (il 21,6 per cento in più rispetto all’anno precedente, un record europeo) e il numero degli immigrati lievitasse a 3,7 milioni (il 6,2 per cento della popolazione italiana contro la media del 5,6 di Eurolandia). Quanto all’economia, basti l’ultimo rapporto della Commissione europea sulla competitività (novembre 2007), secondo il quale nel nostro paese un’ora di lavoro rende lo 0,1 per cento in meno della media registrata negli altri paesi europei. Dietro di noi c’è solo Malta. Per contro, nella Francia di Sarkozy un’ora lavorativa vale il 15,9 per cento in più della media dell’Unione Europea. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? E, soprattutto, come ripartire? Ne parliamo con Lodovico Festa, brillante analista e autore del libro Il partito della decadenza (Boroli), con il professor Giulio Sapelli, docente di Storia economica e di Analisi culturale dei processi organizzativi all’Università degli studi di Milano, Oscar Giannino, direttore di Libero Mercato, e, in un intervento a margine, con Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà (vedi box).
Iniziamo dal Partito della decadenza. Chi sono, in sintesi, “questi” cui dobbiamo attribuire la responsabilità della crisi italiana?
Festa. “Questi”, il soggetto che viene esaminato nel libro, è il piccolo establishment. Cioè quell’accrocchio di potere fra finanza, industria ed editoria che si raccoglie tra Luca Cordero di Montezemolo e il Corriere della Sera. Questo accrocco, erede di un potere di ben maggiori dimensioni e di ben altra funzione nazionale, per difendersi ha puntato a non risolvere alcune questioni basilari e a fare alleanze come quella con Romano Prodi su presupposti conservatori. Il risultato complessivo è che così ha aumentato l’entropia della società italiana. Dopo l’alleanza con Prodi è venuta la scelta dell’antipolitica per cercare di farsi spazio. Adesso viene la scelta di Walter Veltroni per avere un ruolo in una politica che si presume più fragile, che non rompe, ma che neanche cuce. Poi, diciamo negli ultimi quattro anni, molta della nostra storia passa dalle esigenze di rilancio della Fiat (che ha bisogno di riorganizzarsi e in questo senso di un potere che la protegga) e dall’espansione dell’influenza di Banca Intesa.
Sapelli. La riflessione sulla decadenza che è bene espressa nel libro del grande Festa risulta ancor più decisiva se riflettiamo sul fatto che, a fronte di essa, il potenziale esistente nell’economia mondiale è immenso. Eppure qualcosa in Italia si sta muovendo. Si pensi al rinnovamento che ha investito un’impresa cruciale per la nostra storia come la Fiat. O ai dati sulle privatizzazioni. Se guardiamo la distribuzione dei ricavi che si sono tratti dalle privatizzazioni in Europa dal 1977 al 2006, per esempio, rimaniamo stupiti. L’Italia ha privatizzato per 140 bilioni di euro ed è alla testa di una classifica che vede al secondo posto la Francia con 113 bilioni e subito dopo il Regno Unito, con 96 bilioni, seguito dalla Germania con 95 bilioni.
Giannino. Il libro di Festa ha il merito di unire due cose. Primo, una ricostruzione della storia italiana incentrata su quella che secondo me è la più grande ricostruzione della guerra di potere che c’è stata in questi anni. Che non è quella contro o pro Berlusconi, ma quella che ci porta dal no alle due Opa bancarie del 1999 alla nascita delle due superbanche italiane, Unicredit-Capitalia e, soprattutto, Intesa-San Paolo un anno fa. Questo è il vero percorso che in questi anni ha ricomposto i poteri di un paese in cui l’unico sistema nervoso è quello bancario-finanziario, in cui non ci sono intermediari non bancari e in cui le imprese editoriali sono concentrate attraverso imprese industriali che sono nelle mani delle banche. Il secondo aspetto importante del libro è l’attenzione a come la Confindustria di Montezemolo negli anni è divenuta attore di questo gioco, un attore non fondamentale, ma protagonista dal punto di vista del palcoscenico e dei ruoli che si prendeva, ai quali ambiva o che gli venivano attribuiti da pezzi importanti del potere mediatico che vive all’ombra della grande guerra di potere bancaria. Ecco, Festa ci offre una ricomposizione finale di un decennio che si chiude.
Il decennio iniziato con la scalata a Telecom di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno all’ombra del governo amico (e forse qualcosa di più) di Massimo D’Alema?
Giannino. Sì, credo che questo decennio sia più importante degli anni di Mani pulite. Mentre il percorso di ricostruzione e ricomposizione della rappresentanza politica non ha avuto un esito né equilibrato né europeo (perché anche il Pd in Europa è una cosa anomala), dal punto di vista del potere reale, l’aggregazione bancaria ha trovato uno sbocco in linea con la realtà italiana e internazionale, sia pure a caro prezzo.
Perché a caro prezzo?
Giannino. Bè, una testa tagliata a un governatore di Bankitalia, i pubblici ministeri che cambiano le leggi e irrompono nelle vicende del mercato italiano, tutto questo cos’è? Noi dimentichiamo che la svolta è avvenuta anche grazie al recepimento di due direttive comunitarie che hanno improvvisamente cambiato l’intera batteria delle pene dittali. Oggi un magistrato può arrestare chi vuole, sequestrare patrimoni e plusvalenze, mandare a casa interi consigli di amministrazione. Poi, anni dopo, coi processi, che i reati ci siano o meno diventa secondario. Perché nel frattempo le scalate e i cambi di proprietà vengono impediti dai magistrati. Ecco il prezzo attraverso il quale in Italia si realizza la parte finale di questa ricomposizione del potere. Lo so, io faccio un’analisi quasi marxista. Lo so che siamo pochi a proporre questo esercizio vecchio stile. D’altra parte il panorama editoriale italiano è totalmente all’ombra di questo disegno di ricomposizione del potere che è avvenuto.
Sapelli. In effetti con le grandi fusioni bancarie del 2007 si chiude una lunga fase nel nostro sistema finanziario. Nell’Italia postbellica i tre poli, la finanza laica, la finanza cattolica e la finanza locale, hanno convissuto con una divisione dei ruoli che alimentava conflitti, consentiva controlli reciproci, soluzioni di volta in volta diverse ai problemi della società economica in evoluzione. Poi, dopo le privatizzazioni, ecco la dialettica fra la finanza del valore per l’azionista, piuttosto milanese, e quella, piuttosto romana, legata ai valori della stabilità degli assetti e alla difesa degli interessi. Oggi finanza romana e milanese celebrano le nozze, mentre le banche locali e cooperative cercano soluzioni di sapore via via più difensivo e sono sottoposte a un pericoloso attacco anche istituzionale. Le soluzioni, per esempio, che si prospettano sul fronte parlamentare in merito alle banche popolari sembrano volerle fortemente penalizzare e confermano tale visione. La dialettica fra Intesa-San Paolo e Unicredit non è di funzioni, di modelli, ma tra referenti più politici che economici, referenti peraltro non così distanti gli uni dagli altri.
Giannino. E comunque io credo che il problema che ci consegna questo duplice filone di ricomposizione del potere italiano (quello bancario e il ruolo di Confindustria) sta tutto intorno a un interrogativo per me centrale. Questo interrogativo è il seguente: mentre il problema della rappresentanza nel mondo del lavoro sarà una cosa lunga e complicata da affrontare, come è possibile riavviare un disegno intelligente e critico rispetto alla rappresentanza dell’impresa? Questo per me è il problema fondamentale.
Perché ci sarebbe un diverso ruolino di marcia per sindacato e impresa nel processo di ricomposizione della rappresentanza?
Giannino. Perché viviamo in un paese in cui è possibile che i sindacati confederali dicano che al loro referendum autoconvocato hanno votato oltre cinque milioni di lavoratori, di cui quattro milioni di attivi. Non danno dati per categoria, ma io ho fatto un conto: se si prende l’unico dato che abbiamo, quello dei metalmeccanici, e lo si parametra a quello del referendum del 1995 sulla legge Dini, siccome i metalmeccanici che hanno votato questa volta sono 600 mila e non 900 mila come allora, bè, i votanti dovrebbero essere due milioni e seicentomila, non cinque milioni e centomila. Al Sud, che tradizionalmente, sia alle consultazioni sindacali sia a quelle politiche, ha un tasso di partecipazione più basso, questa volta abbiamo Sicilia, Calabria e Campania che stanno al 93-97 per cento di partecipanti al voto. Da questo deduco che siamo in presenza di una possibile falsificazione dell’ordine del 100 per cento. Ora, siccome col sindacato so che sarà complicato, dico che il problema della rappresentanza nell’impresa offre spunti meno organici, diciamo così, dal punto di vista del disegno.
Perché?
Giannino. Primo, perché Montezemolo se ne andrà. Secondo, perché per via di quanto è successo nell’ultimo anno e mezzo sulla questione fiscale, ci dovrebbero essere pezzi importanti dell’impresa italiana che si pongono la domanda: è possibile continuare a delegare la rappresentanza a una minoranza di grandi soggetti di Confindustria che di volta in volta, vivendo all’ombra di questo unico sistema nervoso, cioè quello bancario-finanziario, stanno a un tavolo solo per consentire l’equilibrio che Festa descrive attraverso la formula del “piccolo establishment”? La mia opinione è che moltissime di queste organizzazioni che hanno una storia, una direzione e magari anche referenti politici diversi, non è un caso che in questo ultimo anno si siano trovate a fare battaglie comuni. Confartigianato, Confesercenti, Confcommercio e così via. C’è tutto un mondo, molto vasto, rispetto al quale, soprattutto al Nord, Confindustria e Compagnia delle Opere potrebbero avere un grande terreno per organizzare iniziative e porre il problema. Mi chiedo: tutti quelli che rappresentano il 99 per cento delle imprese italiane, cioè le piccole, quelle che pagano spread più alti nel capitale di credito e nel capitale di rischio, quelle a cui le due grandi banche hanno rifilato miliardi di euro di derivati eccetera, tutti quelli cioè che ci rimettono con questo tipo di equilibrio perché pagano aliquote nella media di 20-40 punti superiori alle poche grandi banche e imprese, è possibile che continuino a delegare la rappresentanza solo alla minoranza del “piccolo establishment”? Questo per me è uno degli interrogativi più imbarazzanti, al di là della politica della destra o della sinistra.
Per dirla con l’ambasciatore americano Ronald Spogli, «l’Italia è ferma». In più, oltre al caos politico, ci troviamo in una situazione in cui, a detta di Bankitalia, Commissione europea e Fondo monetario internazionale, si è interrotto il processo di risanamento dei conti pubblici. Come se ne esce?
Sapelli. Se ne esce solo in due modi: commissariando lo Stato come abbiamo fatto con il governo Amato del 1992 e poi con il dominio dei banchieri centrali, ossia svelando la realtà della democrazia, che ovunque è una farsa per tenere buono il popolo. Occorre di nuovo commissariare il paesuccio italico con un rappresentante del capitale finanziario internazionale che rimetta in sesto il sistema a partire dal debito pubblico. Nel mentre, con la minaccia della commmissariarizzazione infinita, si fa fare agli spaventati parlamentari una legge elettorale decente, proporzionale, con voto di preferenza e sbarramento al 4 per cento ed eliminazione del Senato. Poi si vota dopo circa dieci anni, sennò si sta con i banchieri centrali.
Festa. Primo, quello che tiene ancora insieme il piccolo establishment, ciò che impedisce di fare rapidamente i conti col prodismo, è la paura del ritorno di Berlusconi. Perché Berlusconi è un outsider che modifica equilibri che seppur scossi ancora reggono. È interessante notare che il piccolo establishment sabota tutti gli interventi di stabilizzazione. Non solo quelli che vengono dal basso. Ma soprattutto quelli che vengono dall’alto. Quando Carlo De Benedetti fa una società con Berlusconi, è il Corriere della Sera che l’affonda. Quando Corrado Passera prepara l’entrata di Berlusconi e Colaninno in Telecom Italia per fare una grande operazione industriale, è il Corriere della Sera che contribuisce a far fallire l’impresa. Secondo, io non sono pessimista. Anzi. Dico che oggi tutte le contraddizioni sono maturate. Un nuovo pessimismo sarebbe giustificato solo se riuscisse il disegno di Giovanni Bazoli (e in parte di Antoine Bernheim) di fare delle Generali il punto che incolla Unicredit e Intesa-San Paolo. Se invece si crea una vera dialettica tra i due grandi poli bancari, in Italia succede quello che accade in Spagna, cioè che Santander e Bilbao creano vitalità nella società. Sì, certo, come dice Giannino l’altro grande potere conservatore è la Cgil e il voto in fabbrica è andato probabilmente come sospetta lui. Però faccio notare che la Cgil ha preso anche una grande scossa da questo referendum.
Quale scossa?
Festa. Vorrei ricordare che nel 2006, al suo congresso, la Cgil ha approvato esattamente il contrario di quello che c’è nel protocollo del luglio 2007: non si tocca la defiscalizzazione degli straordinari, non si danno incentivi alla contrattazione aziendale, va superata la legge Biagi. Si sono rimangiati tutti e tre i punti al centro della loro linea. Ora, per sopravvivere Epifani ha dovuto consegnare le chiavi della Cgil a Paolo Nerozzi e Carlo Podda, che sono due leader sindacali espressione del pubblico impiego, e così una delle varianti italiane fondamentali, quella di una razionalizzazione e di un taglio della spesa pubblica, rischia di impantanarsi. Bisogna poi tener conto che la Fiat ha bisogno della Cgil come dell’aria e che in tutte le fabbriche montezemoliane il “no” vince ovunque, dall’Iveco alla Fiat, dalla Ferrari a Termini Imerese. Il che dà un’idea di quanto sia stata geniale la linea confindustriale di Montezemolo.
Giannino. La partita che spetta alla politica è interessante. D’accordo, il gioco è complesso perché questo è un paese che ha ricostituito una delle sue piattaforme per stare nella competizione internazionale attorno alle due grandi banche e ha ridislocato tutto quello che resta dei grandi gruppi industriali bene all’interno dei due poli bancari (tranne, forse e fino a un certo punto, Eni, Enel e Finmeccanica), mentre tutto il resto dei grandi gruppi italiani è completamente inglobato in questo reticolo che si è potentemente ridefinito. Ma detto questo, la politica non è che abbia un compito trascurabile rispetto a questa nuova configurazione del potere economico. Da questo punto di vista, per esempio, io non condivido tanto il giudizio per il quale Veltroni viene considerato un candidato naturalmente meglio vocato e meglio piazzato di altri del centrodestra. Perché per chi ha seguito nei decenni l’evoluzione di Veltroni sa che tra le sue straordinarie qualità ha senz’altro quella di essere un uomo di consenso, uno che non si fa incastrare su singole proposte concrete, un grande blob che abbraccia tutti, l’uomo dei sentimenti, di Mahatma Gandhi. tutto quello che vogliamo. Ma dal punto di vista delle relazioni con il tipo di potere di cui stiamo parlando, bè, Veltroni non è che abbia azzeccato tante mosse. E comunque rappresenta una scommessa aperta, tutta da verificare. D’altro canto, chi sta nel centrodestra, se vuole lanciare una sfida a Berlusconi (per domani e il dopodomani, a voler essere chiari, Formigoni o chiunque voglia lanciare una sfida per il futuro), deve costruirla sulla reinterpretazione di questa Italia. Perché è questa Italia che ci fa stare o non ci fa stare nei mercati e consessi internazionali.
E se i due colossi bancari si “incollassero”, come dice Festa, in Generali?
Giannino. Ci dimentichiamo che in Italia l’azionista pubblico ha nelle mani una robetta che rimane tale sinché non la si usi da deterrente nei confronti del sistema bancario italiano. Il giorno in cui ci fosse un presidente del Consiglio che dice: “Care grandi banche, siccome la pensiamo diversamente, io non mi metterò a fare i prezzi di mercato cui voi offrite i vostri prodotti come ha fatto il governo Prodi intervenendo per decreto sulle commissioni bancarie, sul massimo scoperto eccetera. No, io faccio un’altra cosa, siccome come azionista io resto proprietario di Poste italiane spa, che è la rete territoriale più diffusa in Italia, sapete che c’è? Me ne frego del fatto che l’Abi mi fa la guerra perché è riuscita ad ottenere fino a questo momento da una politica un po’ troppo connivente che le Poste non ottenessero il pieno adeguamento a soggetto bancario e finanziario con tutti i titoli. Noi puntiamo a che la più grande rete italiana sul territorio vi faccia concorrenza in tutto e per tutto, non con prodotti monopolisti, ma plurimarca, con tutti i prodotti finanziari, dall’investimento alla famiglia fino al travel banking”. Per le sinergie di rete che Poste potrebbe praticare se diventasse un soggetto bancario di questo tipo, una mossa simile per le grandi banche italiane sarebbe una specie di guerra mondiale.
Cosa manca all’Italia per iniziare un percorso virtuoso tipo Irlanda anni Novanta invece di continuare ad andare alla deriva tipo paesi del Maghreb?
Festa. Io non ho mai creduto a questa storia del declino italiano. Io penso che l’Italia delle piccole e medie imprese abbia una struttura produttiva fantastica, che ha reagito appena il centrodestra le ha dato un po’ di benzina. E anche con Prodi gli italiani in fondo si sono arrangiati da soli come d’altronde hanno fatto negli ultimi quarant’anni. Insomma, io sono proprio convinto che siamo ancora un paese molto vitale. Però vorrei dire un paio di cose sulle provocazioni molto divertenti di Giannino. La prima: io non avrei un briciolo di speranza in Veltroni. Anche se si deve tenere conto che, quando uno passa da cardinale a papa, magari si trasforma. Però è evidente il tipo di soggetto che ci troveremo di fronte: uno che ha pensato solo a come farsi finanziare dalle banche i festival del cinema e le notti bianche invece di stare un po’ attento al fatto che i centri decisionali di quelle stesse banche che lo finanziavano, la Bnl e Capitalia, andavano una a Parigi e l’altra a Milano. Se io fossi stato cinque minuti un sindaco di Roma mi sarei occupato intensamente di far fare la fusione Mps-Capitalia o di far comprare Mps da Bnl o viceversa, cioè di avere una grande banca romana. Quando vediamo Sensi, Lotito, Angelucci, tutti in coda da Alessandro Profumo, capiamo che cosa succederà a Roma. Un tipo così stordito, a cui sfugge la realtà che gli passa sotto gli occhi, non è che farà meglio da segretario del Pd. Sì certo, a meno che avvenga un miracolo o che Goffredo Bettini si concentri. Ma insomma, la vedo dura. Seconda cosa: all’idea di Oscar sulle Poste non avevo mai pensato, ma è semplicemente fantastica. La guerra, poi, sulle Generali sarà san-gui-no-sa! Faccio solo una domanda: chi ha passato le carte a Report? O credete davvero che i “derivati” siano il pane quotidiano di Milena Gabanelli?
Giannino. L’Irlanda va bene semplicemente per dimostrare che si può abbassare la spesa e le imposte fino a 15 punti e andare meglio. Ma vedi, noi siamo un paese iperpatrimonializzato. Il che vuol dire che noi possiamo permetterci, purtroppo (dal punto di vista dei cambiamenti dico “purtroppo”), anni e anni di vita su patrimonio e di crescita modesta, senza che si verifichino condizioni di rottura. Oggi le famiglie italiane comprano pacchi di centinaia di miliardi di euro di prodotti finanziari dalle banche, che offrono loro, sotto altre parole, dei Bot travestiti. E intanto, su questi Bot travestiti in prodotti finanziari privati, le banche si beccano dal 5 al 7 per cento di commissioni. Questa purtroppo è la fotografia di un paese che si può permettere molto a lungo di crescere meno. Quello che manca davvero sono politici che osino.
Immaginiamo che nella primavera-autunno 2008 ci siano elezioni anticipate o quant’altro (governo tecnico, larghe intese e via discorrendo). Quali dovrebbero essere secondo voi i provvedimenti che il prossimo esecutivo, di qualunque colore esso sia, dovrebbe impegnarsi a realizzare subito?
Festa. Le tasse. Tasse e impresa. Il primo provvedimento che farei è che qualunque persona sotto i 35 anni formi una società, metà dei suoi utili siano detassati. E che a qualunque persona che lavori da 15 anni come dipendente e si metta in proprio per dare vita a una sua società, metà degli utili siano detassati. La cosa che dobbiamo fare in Italia è spingere all’impresa, innanzi tutto nei servizi, dove siamo molto sottodimensionati.
Giannino. Tre cose. La prima riguarda i sindacati. Nel protocollo di intesa sul welfare non è che si detassa, ma si levano i contributi aggiuntivi (fino al 5 per cento del monte salari che è rivolto alla contrattazione aziendale). Io direi: “Benissimo”. Però il governo aggiunge: “Per tutte le aziende dove il datore e il rappresentante dei lavoratori arrivano fino al 20 per cento del monte salari per contratti aziendali – non volete chiamarli ‘di produttività’? e chiamateli come cacchio vi pare – si passa alla decontribuzione di tasse per l’imprenditore e il lavoratore fino al 20 per cento”. Voglio vedere i sindacati che spiegano ai lavoratori che, con tutti i soldi in più che così entrerebbero nelle tasche dei lavoratori, è meglio non farli quei contratti. Dandola come opzione non obbligatoria, volontaria. Dunque, primo, una decontribuzione del 20 per cento per tutti i contratti aziendali, libere le parti sociali di sottoscriverli o meno. Secondo, tassazione d’impresa. Qui bisogna ribaltare l’effetto regressivo che l’attuale sistema esercita sulle imprese italiane. Quindi la mia opzione è: tutti coloro che hanno fino a 100 mila euro l’anno di quota d’affari vale il forfettone del 20 per cento applicato oggi su chi ne ha solo 30 mila. Ma attenzione: con un sistema per cui chi dall’anno successivo inizia a crescere più della media dei tre anni precedenti inizia ad avere una detassazione proporzionale a quanto cresce. Dunque, il punto numero due è: più cresci, meno paghi. Punto numero tre: la coalizione governativa si impegna a sottoscrivere protocolli solo di fronte a verifiche reali della rappresentanza di chi li firma. Questo deve valere per il sindacato come per l’impresa.
Sapelli. Il mio pacchetto è il seguente. Punto primo: misure per rafforzare la legge Biagi e, contestualmente, varo del salario di cittadinanza e di un provvedimento tipo welfare to work, l’uno incrociato con l’altro, cioè collegando e vincolando i sussidi al concorso attivo del disoccupato nella ricerca del lavoro. Secondo: abolizione di ogni forma di sussidio alle imprese. Terzo: abolizione di ogni aiuto internazionale che alimenta solo la corruzione. Quarto: separazione delle carriere dei magistrati. Quinto: scioglimento immediato del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica, ndr) e delle altre agenzie analoghe, mantenendo solo il centro di monitoraggio per le aziende in crisi presso la presidenza del Consiglio. Sesto: aumento degli stipendi agli insegnanti. Settimo: provvedimenti a favore del no profit e del movimento cooperativo. Ottavo: tetto del 30 per cento circa a ogni forma di prelievo fiscale.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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