
De Gasperi, costruttore e precursore

Il costruttore. Antonio Polito non poteva trovare parola più adeguata per definire Alcide De Gasperi. Il costruttore è il libro che l’editorialista del Corriere della Sera (già inviato di Repubblica a Londra, già fondatore e direttore del Riformista) ha dedicato al primo Capo dello Stato provvisorio e primo presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana. Ed è il libro che consiglio anche a chi di De Gasperi conosce la storia, perché è scritto con il distacco del politologo che si è formato a sinistra senza sposarne i pregiudizi ideologici e nello stesso tempo con l’adesione di chi da quest’uomo, dalla sua fede, dalla sua cultura e dalla sua passione politica è rimasto colpito e attratto.
Per un cattolico, quale io sono, sono centonovanta pagine di gran conforto e di speranza perché si vede in azione una «intelligenza della fede che diventa intelligenza della realtà» (per dirla con Joseph Ratzinger/Benedetto XVI), e nello stesso tempo sono fonte di una dolorosa (ri)presa di coscienza di quando così non è stato per una vocazione egemonica diretta nelle cose politiche della Chiesa stessa e delle sue gerarchie.
Pagò la sua fermezza
Il libro si legge d’un fiato. Ed ecco che cosa si legge.
Un ritratto dell’uomo che è stato l’unico “premier forte” che l’Italia abbia avuto, forse l’unico statista di levatura internazionale, e a cui gli italiani suoi contemporanei furono immensamente grati, come dimostra il viaggio del suo feretro dal natio Trentino a Roma fra due ali di folla a ogni stazione in cui faceva sosta. Gratitudine, e memoria, svanita nei posteri e a cui questo libro rimedia. Un uomo che sapeva che cos’era un popolo e una nazione, che non li faceva coincidere con lo Stato, tantomeno con un sovranismo artefatto. Lo testimoniò da italiano nel Parlamento di Vienna, dove già parlava della possibile convivenza tra popoli e nazioni in un contenitore multinazionale che preservasse lingua, costumi e cultura di ognuno, e poi da presidente del Consiglio di un Paese sconfitto in guerra e capace di promuovere, con i vincitori, un’Europa che avesse come scopo la pace e lo sviluppo.
In questo suo tentativo, tanto lucido da sfidare l’apparentemente impossibile, aveva un nemico, che egli stesso definì così: «L’unione delle forze per la demolizione che rende impossibile l’unione per la costruzione».
Pagò la sua fermezza in vario modo: con il carcere austriaco e quello fascista; con lo scontro con Pio XII e l’umiliazione che ne subì quando gli venne rifiutata l’udienza; con la guerra politica e ideologica che il Pci gli fece accusandolo di essere l’artefice della “restaurazione”, costruendo contro di lui il mito della “Resistenza tradita” e fissando il paradigma che l’anticomunismo non fosse altro che una nuova forma di fascismo. E siamo, purtroppo, ancora lì.

Le cinque “lezioni”
Polito riassume l’eredità dimenticata di De Gasperi in cinque “lezioni”, che prima di essere tali si sono attuate come realtà: la realtà che ha fatto in pochi anni di un Paese in macerie la sesta potenza economica mondiale, con il conseguente benessere – questo gli interessava – di operai, contadini, famiglie (la pagina della sua visita ai Sassi di Matera commuove della stessa commozione che De Gasperi, pur nel suo riserbo, provò e da cui nacque, oltre all’intervento concreto per quelle persone, il piano di investimenti per il Sud denominato Cassa del Mezzogiorno).
Prima lezione: «Il vero democratico è antifascista e anticomunista allo stesso tempo»
Il suo antifascismo, che lo portò in carcere, è fondato sulla “democrazia politica” al cui centro c’è l’idea della libertà che attinge, oltre che alla sua fede, alla tradizione di libertà di Manzoni, Rosmini, Gioberti… una corrente liberale e democratica che pervade la Chiesa lungo il XIX secolo e che non ne è, purtroppo, patrimonio comune, neanche ai vertici. Di qui le ambiguità della gerarchia con il fascismo. Prova ne sia l’abbandono della guida del Partito popolare da parte di don Sturzo su richiesta vaticana.
Convinto che democrazia è antidittatura, De Gasperi lottò così su due fronti, contro il fascismo e contro la crescente egemonia comunista. Già allora la sinistra azionista giocava sul linguaggio e parlava di “rivoluzione democratica”. De Gasperi rispondeva secco: «La democrazia è anti-rivoluzione». Non si pensi per questo a un moderatismo che vive di compromessi al ribasso. Moderato non vuol dir esangue e De Gasperi lo dimostrò quando, di fronte alla resistenza di Umberto di Savoia che non voleva accettare il responso del referendum, in una notte fece approvare in Consiglio dei ministri la legge che attribuiva transitoriamente le funzioni di capo dello Stato al presidente del Consiglio in carica.
Seconda lezione. «La politica estera è sempre la chiave della politica interna»
Polito ricostruisce con dovizia di particolari la visita negli Stati Uniti del gennaio 1947 e il clima in cui si svolse. Lì si decise la collocazione internazionale dell’Italia. Che la politica estera fosse decisiva De Gasperi lo aveva capito già nel 1944, quando entrò nel governo Bonomi II e scelse di fare il ministro degli Esteri. Togliatti si oppose sino alla fine, gli andava bene all’Interno e persino presidente del Consiglio, ma non agli Esteri. Da lì a cascata il Piano Marshall, la Nato, il ruolo dell’Italia nella contrapposizione tra i due blocchi.
Anche questo non fu senza problemi con il Vaticano, fautore di un neutralismo e di un terzaforzismo a cui De Gasperi rispondeva così: «Neutralità, ideale da tutti agognato, ma raggiungibile solo in un mondo di inermi o garantito da una forte difesa di natura e di armi». Pio XII, che come anticomunismo non scherzava certo, si convinse e la svolta della Chiesa arrivò con il messaggio natalizio del 1948.
De Gasperi e politica estera vuol dire quindi Europa unita sino alla difesa comune, quell’esercito europeo che restò il suo rammarico.
Terza lezione. «Il rigore serve per la crescita, la crescita fornisce le risorse per le riforme sociali»
Già allora esisteva il “partito della responsabilità” e il “partito della spesa”. Polito ricostruisce lo scontro che ancora infiamma la politica italiana con il resoconto di un colloquio tra Alcide De Gasperi e Amintore Fanfani. Leggetevelo, inizia pagina 109.
Per fortuna, almeno all’inizio, vinse De Gasperi, che riuscì a coniugare il rigore liberista di Einaudi e Menichella con l’ispirazione keynesiana non ideologica del New Deal per creare lavoro e reddito. Da quello che la sinistra definiva conservatore e restauratore nacquero: la riforma fondiaria (un milione e mezzo di ettari passati dai latifondisti ai contadini), il Piano casa (centoquarantasettemila nuovi alloggi popolari in sette anni), la Cassa del Mezzogiorno, l’Eni, la legge sui lavori pubblici, la riforma tributaria.
Quarta lezione. «Investire (bene nel Sud) è utile anche allo sviluppo del Nord»
Basti la cifra: mille miliardi di lire in dieci anni (1950-1960). E la profezia di Luigi Einaudi: «Mille miliardi in mano a chi sappia e possa usarli bene sono molti, mille miliardi in mani diverse potrebbero persine essere negativi». Polito racconta sia la prima che la seconda fase. Gli investimenti di “preindustrializzazione” in infrastrutture, soprattutto per risolvere il rifornimento idrico (“prima l’acqua”), che permettono di dire che «il bilancio dei primi quattro anni di vita della Cassa, che corrispondono agli ultimi quattro anni di vita di De Gasperi, è assolutamente positivo. Prima che i partiti prendessero il sopravvento sulle istituzioni».
Il declino passò da mutate situazioni internazionali, da una seria – questa sì – questione morale (che avrebbe dovuto e dovrebbe oggi far capire la centralità dell’educazione), da un malinteso regionalismo. Morale politica, che è altra cosa dal moralismo giustizialista: «Una volta rinunciato alla possibilità di usare il denaro pubblico come volano di sviluppo civile ed economico, le uniche politiche immaginabili sono diventate quelle assistenziali, più o meno sofisticate, delle quali il reddito di cittadinanza è la più simbolica».
Quinta (e ultima) lezione. “Un leader è forte se sono forti le istituzioni, non i partiti”
In questo capitolo – oltre a ricostruire lo scontro di De Gasperi con il Vaticano che, temendo una vittoria comunista alle amministrative di Rom, voleva un listone anticomunista in cui confluisse anche la Dc, “ordine” al quale De Gasperi si oppose con tutte le sue forze, ed ebbe ragione – Polito ricostruisce il tentativo, sin dai primi anni dopo la Costituente, di una riforma della costituzione in senso “presidenzialista” che De Gasperi perse ripiegando quindi su una nuova legge elettorale, quella che passò alla storia come la “legge truffa”, dove la truffa consisteva nel fatto che lo schieramento che avesse ottenuto il cinquanta per cento del voto popolare (e allora votava il novanta per cento della popolazione) avrebbe avuto un premio in seggi che stabilizzava la maggioranza parlamentare.
De Gasperi lamentava – e non era l’unico – la debolezza intrinseca dell’istituzione Governo per come era stata disegnata dalla Costituzione, che non permetteva al gabinetto di essere effettivamente distinto dai partiti. Vide lungo, dopo di lui, che sopperiva con il suo carisma e con la sua leadership alla debolezza dell’esecutivo, l’Italia divenne una “Repubblica dei partiti”.
A solo sei anni dalla sua promulgazione De Gasperi auspicava una “revisione costituzionale”. Questa e l’esercito europeo (insieme all’incompiuta di una federazione europea) sono le costruzioni mancate del “costruttore”, delle quali certamente si crucciò, ma alle quali cerco instancabilmente di trovare soluzioni pragmatiche: «Adesso – sono le sue ultime parole alla figlia Maria Romana – ho fatto tutto quello che era in mio potere, la mia coscienza è in pace. Vedi, il Signore ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita, ma poi quando credi di essere necessario, di essere indispensabile al tuo lavoro, ti toglie tutto improvvisamente. Ti fa capire che sei soltanto utile». Anche questa è una lezione da ricordare.
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Antonio Polito
“Il costruttore”
Mondadori
196 pagine
19 euro
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