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Ddl Cirinnà bis: problemi bis

Dall’analisi del testo di legge emerge una schizofrenica contraddizione, lampante perfino per i non giuristi e ravvisabile da chiunque sia provvisto di semplice buon senso e spirito critico

Aldo Vitale
09/10/2015 - 2:00
Politica
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cirinna-ansa

«Corruptissima republica, plurimae leges» («in uno Stato molto corrotto ci sono moltissime leggi»): così notava Tacito nei suoi Annali (III ,27) a proposito del fatto che una pluralità di leggi non traduca necessariamente l’unicità della giustizia, anzi che la moltiplicazione delle leggi è, semmai, il sintomo più evidente e diretto della decadenza del senso giuridico.

Analogicamente, si potrebbe notare così che la “corruzione”, cioè i difetti giuridici di una legge o di un disegno di legge, si replicano tante volte quante sono le sue repliche, indipendentemente dal numero delle stesse, e soprattutto se si tratta di difetti strutturati e strutturali.

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Così, si può ritenere per il disegno di legge “Cirinnà bis” che replica la logica del primo disegno di legge volto a disciplinare le unioni di fatto e le unioni omosessuali.

Molto si è detto in proposito e molto ancora potrebbe dirsi senza dubbio, ma in questa sede alcune brevi considerazioni si possono effettuare su questo secondo disegno di legge che è stato presentato per scavalcare le difficoltà dell’iter di approvazione legate al primo.

L’unica nota positiva, o meglio, meno negativa, può essere considerata la modifica apportata all’intero assetto del disegno di legge che riconduce la disciplina delle unioni di fatto non più sotto l’alveo dell’articolo 29 della Costituzione, ma sotto la tutela e protezione dell’articolo 2 della Costituzione, riconoscendo le “unioni civili” non come “famiglia”, ma come “formazione sociale”, accogliendo in questo senso la netta differenza posta ed evidenziata già dalla stessa Corte Costituzionale con la celebre sentenza n. 138/2010.

La famiglia, infatti, aveva giustamente notato la Corte Costituzionale nella suddetta pronuncia, è quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, motivo per cui i padri costituenti l’hanno definita, appunto, come “società naturale”, cioè pre-esistente rispetto all’ordinamento statale, il quale ordinamento non può che limitarsi a prendere atto della originalità ed originarietà prestatale della famiglia.

A parte ciò è tutto un vero e proprio disastro, come nel primo disegno di legge.

In primo luogo: dall’analisi del testo di legge emerge una schizofrenica contraddizione, lampante perfino per i non giuristi e ravvisabile da chiunque sia provvisto di semplice buon senso e spirito critico.

Se da un lato, infatti, le unioni civili non vengono ricondotte all’alveo costituzionale della famiglia, ma a quello delle formazioni sociali ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, come già visto, dall’altro lato, lungo tutto il testo, si richiamano e si modificano le norme che si rifanno non solo alla famiglia, ma specificamente al rapporto di coniugio che trova tutela nell’articolo 29 della Costituzione.

Insomma, il richiamo alla formazione sociale sembra un mero flatus vocis, dato che, invece, la disciplina sostanziale del disegno di legge si condensa intorno alle norme riguardanti la famiglia, cioè si incentra su tutto ciò che è “agganciato” all’articolo 29 della Costituzione e non all’articolo 2 della stessa.

In secondo luogo: viene in rilievo tragicomicamente “l’obbligo reciproco alla fedeltà” sancito nel primo comma dell’articolo 3 del disegno di legge.

Il dovere di fedeltà è un elemento caratteristico del rapporto di coniugio, cioè del legame matrimoniale monogamico e, sebbene vi sia stata nel tempo una evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ne ha modificato, o meglio, depotenziato, la struttura, occorre pur sempre ribadire che al di fuori del vincolo matrimoniale appare del tutto privo di senso un simile obbligo.

Nel rapporto matrimoniale e soltanto in esso, infatti, l’obbligo di fedeltà assume la sua naturale connotazione che gli è propria, poiché esclusivamente nel vincolo coniugale marito e moglie diventano una sola entità materiale e spirituale per il resto della loro nuova esistenza non più individualisticamente intesa.

Come ha precisato un giurista del calibro di Giuseppe Capograssi, del resto, l’obbligo di fedeltà è connaturato al legame matrimoniale: «Il vero fine del matrimonio è proprio il matrimonio […]. E perciò la disciplina del matrimonio e della famiglia è di tutte la più semplice e si riduce al principio che la volontà deve essere volontà di questa piena unione sia nell’inizio e sia nello sviluppo della nuova esperienza […], una esigenza perenne per il soggetto di sacrificare la propria tendenza di licenza e di vagabondaggio».

In terzo luogo: anche in questo disegno di legge “Cirinnà bis”, come nel primo, è stata prevista la possibilità di adozione del figlio di una parte “dall’altra parte dell’unione civile”, richiamandosi in tal senso all’articolo 44 della legge 184/1983.

Sul punto occorre precisare il travisamento di fondo della disciplina dell’istituto giuridico dell’adozione e della lettera e dello spirito dell’articolo 44 della suddetta legge.

L’adozione, infatti, non serve per dare un figlio a coloro che non vogliono e non possono diventare genitori secondo i metodi naturali, ma per dare dei genitori a chi è destinato, per le fatalità dell’esistenza, a crescere senza i genitori naturali.

L’adozione, quindi, non è una mera allocazione delle risorse minorili presso coloro che possono permettersi l’allevamento di un figlio, ma è una finzione che l’ordinamento giuridico consente, ricalcando il rapporto naturale genitori-figli, per tutelare i diritti e gli interessi di coloro che sfortunatamente sono privi di genitori.

Ecco perché, per il bene del minore adottato è giusto che vi siano, come avviene “in natura”, entrambe le figure genitoriali, che esse siano di sesso diverso e che siano unite da rapporto matrimoniale.

Il principio di fondo è insomma quello per cui occorre garantire al minore adottato una situazione di normalità, come fosse il figlio biologico della coppia adottante, evenienza impossibile anche solo da simulare nel caso di una coppia del medesimo sesso, per ragioni fin troppo evidenti che qui possono omettersi.

In quest’ottica, del resto, è chiaro l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo in materia di adozione firmata il 24 aprile 1967 ai sensi del quale è vero che possa adottare anche un single, ma questa possibilità deve essere considerata residuale ed eccezionale rispetto al caso normale, cioè rispetto all’adozione di una coppia unita dal vincolo matrimoniale: «La legge permette l’adozione di un minore solo da parte di due persone unite in matrimonio».

Del resto il richiamato articolo 44 della legge 183/1984 disciplinante le adozioni prevede espressamente che gli adottanti siano uniti da vincolo matrimoniale, riferendosi ad essi, appunto, come coniugi.

La stepchild adoption prevista dal disegno di legge “Cirinnà bis”, dunque, è grottesca ed antigiuridica, quanto il resto del testo normativo presentato per disciplinare le unioni civili, e, con tutta evidenza, viola gli interessi e i diritti di quei minori che invece presume di tutelare.

Al disegno di legge “Cirinnà bis”, insomma, sembrano potersi adattare perfettamente le parole di un esperto di leggi del calibro di Montesquieu, il quale ebbe giustamente a notare: «Vi sono leggi che il legislatore conosce così poco, che sono contrarie allo scopo ch’egli si è proposto».

Tags: cirinnàcorte costituzionaleFamigliaMatrimonioomosessualistepchild adoptionunioni civili
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