Il capo della Procura sono io e dico quello che devo dire”, tuonava ancora nel dicembre scorso Francesco Saverio Borrelli, nell’ultimo dei molti litigi che nel corso degli anni lo hanno visto contrapposto a Gerardo D’Ambrosio. Borrelli, all’epoca ancora procuratore capo, aveva appena “aperto” all’amnistia e D’Ambrosio si era subito premurato di fargli sapere, via giornali, che era una proposta malsana. “Il capo sono io” replicò Borrelli. “Saverio non è più il capo” – ha sottolineato invece nei giorni scorsi D’Ambrosio, suo successore alla guida della Procura, nel censurare la sparata di Borrelli contro il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, reo, agli occhi del Procuratore generale, di aver ignorato la magistratura milanese – e quindi lui stesso, che ne è uno dei personaggi più rappresentativi – nel corso del suo viaggio di 3 giorni nel capoluogo lombardo. L’ennesima lite a distanza Borrelli-D’Ambrosio segna il declino del Procuratore che guidò il pool Mani Pulite all’assalto del mondo della politica corrotta e fa emergere, con più chiarezza che in passato, le profonde differenze tra due uomini costretti per anni a convivere pur non amandosi troppo e ora finalmente liberi di agire ognuno come meglio crede. Un pm che li conosce bene li paragonò una volta a Jack Lemmon e Walter Matthau e si disse convinto che, quando entrambi si fossero trovati in pensione, si sarebbero litigati il primo posto sulla panchina del parco. In effetti, è difficile immaginare due personalità più diverse di quelle di Borrelli e D’Ambrosio. Il primo è un sottile stratega, una mente giuridica raffinata, un attento calcolatore delle ripercussioni politiche di ogni atto giudiziario. Profondamente convinto del ruolo purificatore della magistratura, attento dosatore di ogni esternazione – delle quali conosce perfettamente gli esiti – è uomo da battaglie studiate a tavolino, nei minimi dettagli, nel chiuso di un ufficio. Evitando di lasciare vie di fuga al “nemico” e chiudendo gli spazi per il dialogo e il compromesso.
Gerardo D’Ambrosio, invece, è un profeta della concretezza, del sano realismo alla napoletana. Magari giustizialista, convinto che tutti i mali del mondo si risolverebbero chiudendo tutti in galera, ma ben più attento del predecessore ai problemi e alle paure della gente comune: il progetto della sua Procura non è quello di cambiare il Paese, ma di scoprire e punire i “mariuoli” di tutti i giorni, i ladri, gli spacciatori, i truffatori che fanno sparire le pensioni alle vecchiette, i rapinatori che sparano ai gioiellieri. E nei primi mesi del suo incarico ha scelto di agire con un metodo molto semplice: rimboccandosi le maniche. Ne sanno qualcosa i suoi collaboratori e i suoi pm, spronati a raccogliere dati sulla criminalità, ad elaborare statistiche sugli arretrati della giustizia, a riesaminare faldoni dimenticati e ad accelerare pratiche che da anni giacevano sotto strati di polvere. D’Ambrosio esterna un giorno sì e l’altro pure, ma difficilmente parla “da politico”: i suoi interventi mirano quasi sempre a chiedere leggi, interventi del governi e stanziamenti per poter lavorare meglio e combattere il crimine cittadino, vero nemico dichiarato del suo Ufficio. Con la ventiquattrore piena di dati reali sulla criminalità e di progetti su come combatterla, il 22 settembre è salito al Quirinale e per un’ora e mezzo ha spiegato a Ciampi le sue idee e il lavoro fatto fino a ora a Milano. Borrelli è rimasto in ufficio, forse a ripensare con un po’ di amarezza ai giorni in cui alzava il telefono per avvertire Scalfaro degli sviluppi di Mani Pulite. E quando Ciampi è venuto a Milano, non ha resistito a esternare la sua delusione per essere stato lasciato ai margini. “Ciampi lo avevo già informato io, sa tutto sulla realtà di Milano – ha commentato, gelido, D’Ambrosio – e Borrelli ormai fa un altro lavoro, il capo non è più lui”. Chissà come andrà a finire, tra qualche anno, quando si ritroveranno su quella panchina da pensionati.