Cuneo fiscale abbattuto? Per alcuni ma non per tutti (anzi, aumenta)

Di Matteo Rigamonti
17 Ottobre 2013
Per gli autonomi di professioni non ordinistiche si prospetta un aumento dei contributi previdenziali pari a sei punti percentuali in cinque anni. Intervista a Anna Soru, presidente Acta

Le libere professioni non ordinistiche sotto il torchio del fisco e della previdenza. Per informatici, pubblicitari e tutte quelle professioni che non sono iscritte ad alcun ordine professionale, il cuneo fiscale e previdenziale è ben lontano dall’essere abbattuto. Anzi, è destinato ad aumentare. Per i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata Inps, infatti, il governo Letta non solo non ha previsto alcun intervento ad hoc di riduzione del cuneo come, invece, ha fatto per i lavoratori dipendenti; ma addirittura i contributi che essi dovranno versare all’Istituto nazionale della previdenza sociale sono destinati a salire dal già salato 27 per cento attuale (contro il 14/20 per cento dei professionisti iscritti a ordine e il 21/24 per cento di commercianti e artigiani) al 33 per cento in sei anni.

COSÌ HA VOLUTO IL GOVERNO MONTI. L’aumento di sei punti percentuali sui contributi previdenziali, che oggi sono composti dal 27 per cento per il fondo pensione e lo 0,72 per cento per prestazioni assistenziali di malattia, maternità e assegni familiari, scatterà a partire dall’anno prossimo quando l’aliquota contributiva passerà al 28 per cento. A stabilirlo è stata la riforma Fornero, che prevede altresì il progressivo innalzamento dell’aliquota fino a raggiungere il 33 per cento nel 2018.

PRIVILEGIATI I DIPENDENTI. Una situazione di cui non è certo entusiasta Anna Soru, presidente di Acta, l’Associazione consulenti del terziario avanzato, per cui i lavoratori autonomi delle professioni non ordinistiche (che sono circa 1,5 milioni) già pagano un notevole contributo in termini di fisco e previdenza. Più in particolare, spiega Soru a tempi.it, un dipendente, che costa all’azienda che lo assume circa «40 mila euro l’anno», percepisce in busta paga mediamente il «55 per cento di reddito netto effettivo», mentre il «45 per cento» se ne va in «contributi sia a carico dell’azienda sia del lavoratore, Irpef e altri oneri finanziari».
Ma la situazione non è poi così diversa per il lavoratore autonomo di professione non ordinistica: questi, infatti, percepisce il «53 per cento di reddito netto effettivo», dopo che sono stati tolti i contributi previdenziali, l’Irpef, l’Irap e altri oneri. Considerando, inoltre, che l’autonomo deve farsi carico in prima persona anche di ulteriori spese, come per esempio quelle per la «formazione», il «commercialista», la «maternità» e la «tutela da disoccupazione e malattia», non è esagerato concludere che «il cuneo complessivo per lui è molto più elevato di quello del dipendente».

CHI PENSERÀ AI LAVORATORI AUTONOMI? «Ma è una situazione che è destinata a peggiorare mano a mano che i contributi raggiungeranno il 33 per cento nel 2018», constata con amarezza Soru, che sottolinea come, invece, «in tempo di crisi il lavoro autonomo possa costituire una risorsa» da valorizzare. Solo che «viviamo in un Paese dove contano troppo le corporazioni»; le imprese e gli ordini «sanno come difendersi, per noi è più difficile». «Ci sarebbe bisogno di interviene per modificare la legge, altrimenti con il dilatarsi delle le incertezze sui pagamenti il crollo delle aspettative sul futuro, c’è il rischio che i lavoratori autonomi paghino più di chiunque altro» il prezzo della crisi. «È per questo motivo che, come Acta, abbiamo promosso un appello per fermare l’aumento dell’aliquota Inps al 33 per cento». Così da poter «evitare la formazione di dualismi e contrapposizioni nel mercato del lavoro tra chi gode di alcuni diritti e chi, invece, non ne gode affatto».

@rigaz1

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