L’economia non cresce, la pressione fiscale non cala. Solo il debito pubblico si gonfia
Mentre le borse ballano, ma soprattutto calano e dopo che il governo Letta ha appena annunciato che per le misure a sostegno del lavoro ci sarà ancora da attendere almeno un’altra settimana, i fondamentali dell’economia italiana non mostrano il benché minimo segnale di ripresa. A partire dalla disoccupazione, che ormai è stabile sopra il 12 per cento, con quella giovanile oltre il 40 per cento (fonte: Eurostat). Peggio di noi solo Grecia, Spagna e Portogallo.
E se in Italia a maggio l’inflazione si è attestata all’1,3 per cento in linea con la media dell’Unione europea, il Belpaese detiene ancora il record negativo del maggior debito pubblico in rapporto al pil, che presto supererà il 128 per cento e per il quale siamo secondi soltanto al Giappone (fonte: Ocse).
Se il pil dell’Italia, infatti, è atteso in calo dell’1,3 per cento a fine 2013 e ora si attesta sui 1600 miliardi di euro, il debito pubblico cresce continuamente. L’Istituto Bruno Leoni stima che abbia già superato i 2.060 miliardi e che cresca di 2.800 euro al secondo. Ogni cittadino italiano, in pratica, è come se ne detenesse una fetta pari a 30 mila euro, a fronte di uno stipendio medio che difficilmente è in grado di raggiungere una simile cifra. Lo stipendio medio italiano, infatti, come certificato da diverse fonti, è ben al di sotto della media dell’Unione europea che è pari a 27 mila euro, fermandosi a 21 mila euro. Mentre quasi quattro stipendi su cinque (il 78 per cento secondo le Acli) non superano i 28 mila euro. La Confcommercio, addirittura, ha stimato un reddito reale pro capite di poco superiore ai 17 mila euro, in calo continuo, con effetti negativi sui consumi.
Ma quel che è peggio, il Fiscal compact, oltre a imporre il contenimento del deficit entro il 3 per cento, ci chiede di ridurre ogni anno il debito di 50 miliardi di euro, per raggiungere il target del rapporto debito/pil del 60 per cento entro il 2020. Sembra impossibile. Soprattutto perché già ogni anno l’Italia paga 80/90 miliardi di interessi sul debito. Del resto, già fatichiamo parecchio a ridurre gli 850 miliardi di spesa pubblica e a restituire i 130 miliardi di debiti della p.a. verso le imprese. Figurarsi anche solo cominciare ad erodere il debito. Certo, c’è anche chi, come il professor Marco Fortis, sostiene che il debito pubblico italiano rappresenti soltanto il 77 per cento della ricchezza degli italiani, famiglie e paese, e chiede di rivedere i tradizionali indicatori economici che, però, fino a prova contraria, sono quelli che ancora oggi influenzano i mercati.
A individuare tutt’altre priorità rispetto alla riduzione del debito imposta da Bruxelles e dalla Germania, invece, è la Corte dei conti. Il presidente Luigi Giampaolino, in audizione alle Commissioni bilancio riunite di Camera e Senato, ha individuato quattro grandi emergenze che il governo deve quantomeno cominciare ad affrontare e sono, nell’ordine: l’evasione fiscale, il costo del lavoro, lo squilibrio nei conti pubblici e il sempre più diffuso malessere sociale.
Il ministero delle finanze, come ricordato da Giampaolino in Parlamento, ha stimato che l’economia sommersa in Italia costituisce il 18 per cento del pil ed è lì che si origina l’evasione. E l’Agenzia delle entrate, con riferimento all’Iva e all’Irap, in Italia, si verifica una sottrazione di base imponibile annua per 250 miliardi di euro, il 27 per cento dell’imponibile potenziale. Con la conseguenza che il gettito Iva venuto a mancare ammonta a 46 miliardi di euro, il 28 per cento del gettito potenziale. Mentre sull’Irap il gettito sottratto è pari al 19 per cento. Per un totale di almeno 50 miliardi evasi solo di Iva e Irap nel 2011. E il gettito Iva e Irap insieme costituiscono un gettito pari a 150 miliardi, nemmeno un quinto del totale delle entrate tributarie.
Per la Corte dei conti, inoltre, si sta da tempo verificando un tipo di evasione molto preoccupante, quella definita come “evasione da spesa sociale”, che è quella che mira ad aggirare il fisco non solo per trarre un vantaggio diretto sulle imposte, ma anche per godere indebitamente dei benefici del welfare state.
Nessuna novità nemmeno sul fronte della pressione fiscale effettiva che, come comunicato dalla Corte dei conti ha ormai raggiunto il 53 per cento del pil dichiarato. Anche se si calcola che quella reale sulle imprese abbia superato di gran lunga il 60 per cento e corra a rapidi passi verso il 70 per cento. Una cifra da capogiro che, oltretutto, come evidenzia la Confcommercio è in continuo aumento da anni.
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