Non importano i costi né i rischi sanitari. Ormai la sentenza è emessa: si torni al far west dell’eterologa

Di Laura Borselli
11 Ottobre 2014
La Corte costituzionale ha deciso che diventare figli con i gameti degli altri è un «diritto». Costi quel che costi (troppo) e vada come vada (male)

Ritorno al Far West. Non può essere diverso il titolo del film sceneggiato a colpi di sentenze dalla magistratura ordinaria e pure dai giudici della Corte Costituzionale. Nell’arco di poco meno di dieci anni, infatti, la normativa che regolava il campo della procreazione medicalmente assistita è stata smantellata, col rischio di tornare al famoso Far West della provetta che aveva preceduto il lavoro del Parlamento. Sulla legge sopravvissuta nel 2005 al referendum abrogativo che ha registrato la più alta percentuale di astensione della storia della Repubblica sono intervenute ben 28 sentenze.

L’ultima contestazione riguarda l’articolo 4 che vieta la fecondazione eterologa e che i tribunali di Catania, Firenze e Milano, su sollecitazione di diverse coppie assistite da legali dell’associazione radicale Luca Coscioni, hanno giudicato in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione che proclama tutti i cittadini uguali davanti alla legge. Nelle motivazioni della propria sentenza la Corte ha di fatto affermato princìpi per niente neutri e di sicuro problematici dal punto di vista delle conseguenze pratiche. Perché parlare di «incoercibile» «determinazione di avere o meno un figlio» e di «diritto a realizzare la genitorialità» e anche di «discriminazione» nei confronti delle coppie con meno disponibilità economiche che non possono andare all’estero a fare ciò che in Italia è vietato, significa obbligare le strutture italiane a fare l’eterologa ma senza dare alcuna indicazione su come farlo.

Il ruolo delle regioni
Il governo, messo alle strette da una sentenza che molti commentatori hanno giudicato “creativa”, ha abbandonato l’idea iniziale di intervenire con un decreto per fissare alcuni punti fermi e ora si aspetta una legge. Intanto, anche se alcuni giornali festeggiano le «file davanti alle cliniche per accedere alla fecondazione in vitro», restano da risolvere alcuni problemi di ordine pratico con l’inevitabile coda di perplessità etiche.

La Conferenza delle regioni ha stabilito un ticket da far pagare ai cittadini che richiedano l’eterologa, attenendosi alle modalità già in atto per l’omologa, e prevedendo tra i 400 e i 600 euro. La Lombardia ha invece scelto di far gravare totalmente sui cittadini il costo della prestazione. Da notare, tuttavia, che la cifra individuata è nulla rispetto al costo che dovrebbe sostenere lo Stato. Considerando il numero di cicli da mettere in conto per arrivare alla nascita del bambino (e le percentuali di successo per l’eterologa sono più basse che per l’omologa e comunque condizionate dall’età del materiale genetico donato nonché da quella della potenziale gestante), Avvenire ha calcolato che lo Stato dovrebbe intervenire con circa 14 mila euro a coppia.

In attesa di una legge elaborata dal parlamento, la conferenza delle Regioni ha individuato alcuni punti fermi nell’erogazione del servizio. A cominciare dall’anonimato da garantire ai donatori, il divieto di loro retribuzione economica, la limitazione della pratica a coppie sposate o conviventi di sesso diverso, il divieto di scegliere il colore degli occhi dei bambini, ma la possibilità di individuare un fenotipo coerente a quello della coppia per non comprometterne il «progetto riproduttivo di genitorialità».

Le derive possibili
Tra le questioni aperte, e che inevitabilmente influenzano la possibilità degli ospedali pubblici di offrire davvero l’eterologa alle coppie che lo richiedano, c’è la scarsità di gameti. Primo perché, come ha scritto ancora Avvenire «i gameti donati prima della sentenza della Consulta e conservati nei vari centri non sono utilizzabili per almeno altri sei mesi, perché non sono stati sottoposti ai test di sicurezza per accertare varie patologie, tra cui l’Hiv».

Secondo, come ha detto al Corriere della Sera Edgardo Somigliana, responsabile del centro di procreazione medicalmente assistita della fondazione Ca’ Granda-Policlinico di Milano, gli ovociti sovrannumerari (ossia provenienti dall’avanzo di precedenti cicli di Fecondazione in vitro), quand’anche venissero donati, in genere provengono da donne non giovanissime e dunque «non sono sempre di alta qualità». Il medico invita a incoraggiare una «cultura della donazione», a tenere presente «il rischio di una deriva commerciale» e osserva che «invece di propagandare l’eterologa in età avanzata bisognerebbe fare campagne per sottolineare questo concetto e mettere in grado le coppie giovani di avere figli».

Intanto fanno riflettere l’esempio e i casi limite che si verificano all’estero in paesi che già da tempo ammettono l’eterologa. È il caso della Danimarca, dove, come ha ricordato l’onorevole Eugenia Roccella (Ncd) sottolineando la necessità di un registro nazionale dei donatori, ha fatto scalpore il caso dell’anonimo donatore 7.042, da cui sono nati circa 100 bambini, che ha trasmesso ai figli il gene di una gravissima e incurabile malattia, la neurofibromatosi. Anche la questione dell’anonimato ha creato grattacapi fuori dai nostri confini: paesi che lo hanno abolito (come la Svezia) hanno conosciuto un crollo delle donazioni. Quale uomo è disposto ad assumersi il rischio di venire un domani rintracciato dai figli nati dal proprio seme ma non in alcun modo desiderati come figli?

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