Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Cara Guia, non faccio per vantarmi, ma sono un imprenditore d’un certo successo. E, scusami se uso queste brutte parole, mi sono fatto da solo. Insomma, a me balle non me ne possono raccontare. E invece stanno sempre tutti a raccontarsele: si sono laureati in antropologia, e la società gli deve un impiego da antropologo (che io manco ho ben capito che lavoro sia, ho pure invitato a cena dei cervelloni e mica hanno saputo spiegarmi a cosa servano, ’sti antropologi: gli intellettuali, questo ormai l’ho capito, ti fanno spendere un sacco di soldi di ristorante – mai nessuno che ordini due spaghetti al pomodoro, tutti l’aragosta – ma non sanno mai darti una risposta concreta).
Ogni volta che vengo in Italia, scusa il francesismo, m’incazzo. Per fortuna sto spesso all’estero. Ma son pur sempre di qui, ho degli amici, e poi c’è la famiglia di mia moglie. Insomma, torno in Italia e mi dimentico sempre che non devo mettermi a discutere. Non ho imparato mica niente dagli inglesi: loro, che hanno capito tutto, parlano del tempo. Oddio, anche se ormai si riesce a litigare pure sul sole, la pioggia, e il riscaldamento globale che però la sera ci vuole il golfino.
L’altra sera mi sono ritrovato davanti un ragazzino che diceva che i giovani italiani si sacrificano ad andare fuori di casa a studiare, che l’università italiana è tra le più costose, e che noi non abbiamo il welfare. A me ’sta gente mi fa ammattire: ma a Chiasso a comprare il Toblerone ci sono mai andati? Rispetto a quale posto, abbiamo un welfare scarso? Lo sanno quanto costa l’università negli Stati Uniti? Dice: ma la Svezia. Ma in Svezia paghi più del cinquanta per cento di tasse con un reddito di poco più di quarantamila euro l’anno! Vogliono più tasse o più welfare? Mi fanno andare il sangue al cervello.
Insomma, mi sono messo a dire la verità. Lo so che non è buona educazione, ma gli ho rovesciato addosso tutte le mie lamentele: che i giovani italiani non hanno voglia di lavorare, che quelli che vanno all’estero lavorano una quantità di ore che qui si darebbero malati il secondo giorno, che nei curriculum mettono «ottimo inglese scritto e parlato» e poi gli chiedi «How are you?» e ti rispondono «Le cinque e un quarto».
Te la faccio breve: mia moglie non mi parla da tre giorni. Dice che non è possibile che ogni volta la metta in imbarazzo, che la sua famiglia mi ha dato del leghista (a me, che l’ultima volta che ho visto un certificato elettorale esisteva ancora il Partito repubblicano), che non ci si comporta così. Le ho promesso che la prossima volta sto zitto.
Hai mica degli argomenti non a rischio da suggerirmi? Abbiamo una cena coi suoi cugini, vorrei evitare di sentirmi chiedere una raccomandazione alle Poste (per fortuna non chiedono mai d’essere assunti nelle mie aziende: dice che si lavora troppo).
Flavio B.
Caro Flavio, tu devi essere impazzito. Forse, siccome sei spesso all’estero, non t’è arrivata la circolare. C’è una lista specifica di cose da non dire agli italiani, e tu ne hai trasgredito praticamente ogni punto. Mai dire a un italiano che se vuole una tassazione di livello statunitense poi non potrà avere uno stato sociale di tipo nordeuropeo. Mai dirgli che il problema dell’università italiana è che costa troppo poco: se fosse dispendiosa, si laureerebbero in tre anni come a Harvard, mica dopo quindici anni di fuoricorso come alla Sapienza. Mai dirgli che ci sarà pure la disoccupazione, ma sotto casa mia cercano personale per schiumare cappuccini da sei mesi e, siccome bisogna esser lì alle sette e mezza, e non si possono passare le giornate su Facebook facendo caffè, non trovano personale. Mai dirgli che la convinzione che Amnesty tuteli il diritto alla concessione del mutuo e alla casa di proprietà entro il terzo anno lavorativo è infondata. Soprattutto, mai dirgli che il suo inglese fa schifo e il suo italiano è pronunciato peggio dell’inglese dei politici che irride quando li sente in tv. Evita tutte queste ovvietà, e avrai una vita sociale serena.