Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ricomincia la scuola e ricomincia la battaglia sui cosiddetti “corsi all’educazione di genere e affettività”. Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha dichiarato che entro la metà di ottobre saranno emanate le linee guida affinché «in tutte le scuole italiane» si possa diffondere una cultura «di contrasto a ogni forma di discriminazione e violenza di genere». Per la formazione dei docenti, ha dichiarato sempre il titolare di via Trastevere, sarà stanziata una parte «del fondo di 40 milioni di euro strutturali esistenti».
Di queste linee guida si sa poco o niente, tanto che le associazioni cattoliche – comprensibilmente allarmate – hanno protestato. Anche perché in commissione Cultura alla Camera sono stati presentati otto testi che prevedono l’introduzione in classe dell’educazione di genere.
E qui occorre notare due cose. La prima: tali insegnamenti, con tanti saluti all’autonomia, sono obbligatori, come si legge all’articolo 2 della pdl Tentori-Braga: «Le tematiche inerenti all’educazione di genere non costituiscono materia curricolare a sé stante, ma sono parte integrante degli orientamenti educativi e dei programmi di insegnamento».
La seconda, notata dal vicepresidente Agesc Maria Grazia Colombo: «In nessuna delle otto proposte di legge c’è un riferimento al coinvolgimento delle famiglie nella corresponsabilità educativa, prevista dalla Costituzione, ma spesso dimenticata».
Poiché non occorre la sfera di cristallo per indovinare qual è lo scopo di questi corsi e chi sono gli “esperti” che entreranno nelle aule, ci si chiede che senso possa avere intraprendere – sulla pelle dei nostri figli, tra l’altro – una battaglia anti-discriminazione che parte discriminando la libertà di insegnanti e genitori.
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