![Il problema è SpaceX o le simpatie politiche di Musk?](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2025/01/tempi_20250109195956668_1faba7fa4fc3c96039f0429426ec3eb3-321x214.jpg)
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Non ho alcuna conoscenza in tema di app. Mi interessa, e non poco, l’uso dell’app al fine di prevenire i contagi da Covid-19. Seguo fino a un certo punto le polemiche quotidiane sull’individuazione del gestore, sulla sua affidabilità, sulla difficile interlocuzione fra il governo, in particolare il ministro dell’Innovazione, e il Parlamento, in particolare il Copasir. Tuttavia, poiché il lavoro che svolgo è applicare norme di legge a vicende concrete controverse, ho provato a studiare la prima norma avente forza di legge che dalla dichiarazione dello stato di emergenza disciplina il “sistema di allerta Covid-19”: quella dell’art. 6 del decreto legge n. 28 del 30 aprile 2020. La riporto per intero alla fine di questa nota, sì che chiunque lo desideri, senza perdere tempo a cercarla, potrà verificare se gli interrogativi che seguono siano corretti, oppure no.
Provo a sintetizzare l’articolo in questione, scorrendolo per commi e tentando l’ardua impresa di coglierne il significato. Ardua impresa non solo per l’estensione della disposizione, che si compone di 7 commi, 1.020 parole, 7.232 battute, ma anche perché, affrontando quello che gli esperti indicano come uno snodo cruciale per contenere e spegnere la diffusione del virus, essa non risparmia quantità massicce di riferimenti normativi (da consultare uno per uno per capire di volta in volta di che si tratta) e di termini assenti dal linguaggio corrente, come “pseudonimizzazione” – troppo facile l’equivalente “uso di pseudonimo”? –, mentre è assai parca di punti fermi.
Il comma 1 più che una norma di legge è una manifestazione di intenti. Il governo informa che «è istituita una piattaforma unica nazionale per la gestione del sistema di allerta», ma il verbo indicativo è in realtà un “ottativo”. Si comprende (quasi) subito che sarà una storia lunga, perché il ministero della Salute dovrà sentire il ministro degli Affari regionali – non sottilizzo sul fatto che il dialogo non è omogeneo, “ministero” nel primo caso, “ministro” nel secondo – e poi entrano in gioco la Protezione civile, l’Istituto superiore di sanità (Iss), le strutture operanti nel Sistema sanitario nazionale (Ssn), e infine la Conferenza Stato-Regioni. Né sottilizzo sul fatto che l’Iss è una articolazione del ministero della Salute e che a quest’ultimo fa capo il Ssn, sì che non è chiaro perché il ministero della Salute non realizzi un immediato coordinamento con le Regioni, vista la competenza ripartita fra l’uno e le altre, pur se con prevalenza delle seconde.
Il comma 2 fa entrare in scena il Garante della privacy e assicura che ogni utente dell’app verrà reso «pienamente consapevole» di ciò che in questo momento, stando alle cronache mediatiche, non è stato neanche definito, e cioè le tecniche per garantire l’anonimato e le modalità e i tempi di conservazione dei dati; e quindi non è nella “piena consapevolezza” neanche del governo.
Se il comma 3 garantisce che la finalità dei dati acquisiti con l’app sarà esclusivamente la gestione dell’allerta, e al più il loro uso aggregato per la sanità pubblica, il comma 4 fornisce una ulteriore assicurazione: chi non utilizzerà l’app non sarà penalizzato o discriminato.
Il comma 5 conferisce “titolarità pubblica” alla “piattaforma”, mentre il comma 6 stabilisce che quest’ultima cessa col termine dello stato di emergenza, e comunque entro il 31 dicembre 2020, con la cancellazione di tutti i dati. Il comma 7 prevede la copertura finanziaria.
Un tale dispendio di commi e di parole lascia aperti molti – troppi – interrogativi:
L’art. 6, come l’intero D.L. n. 28, sarà sottoposto all’esame del Parlamento per la conversione in legge. È illusorio attendersi che Camera e Senato pretendano dal governo e forniscano alla nazione risposte plausibili ai quesiti appena sintetizzati?
Foto Ansa
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