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Coronavirus. Poi ci vorrà un’app per spiegare che senso ha l’app

Dalla lettura dell'intricato decreto che norma l'utilizzo della tecnologia per scoprire chi è contagiato emergono molti interrogativi e poche risposte

Alfredo Mantovano
13/05/2020 - 4:00
Interni
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app immuni covid

Non ho alcuna conoscenza in tema di app. Mi interessa, e non poco, l’uso dell’app al fine di prevenire i contagi da Covid-19. Seguo fino a un certo punto le polemiche quotidiane sull’individuazione del gestore, sulla sua affidabilità, sulla difficile interlocuzione fra il governo, in particolare il ministro dell’Innovazione, e il Parlamento, in particolare il Copasir. Tuttavia, poiché il lavoro che svolgo è applicare norme di legge a vicende concrete controverse, ho provato a studiare la prima norma avente forza di legge che dalla dichiarazione dello stato di emergenza disciplina il “sistema di allerta Covid-19”: quella dell’art. 6 del decreto legge n. 28 del 30 aprile 2020. La riporto per intero alla fine di questa nota, sì che chiunque lo desideri, senza perdere tempo a cercarla, potrà verificare se gli interrogativi che seguono siano corretti, oppure no.

Provo a sintetizzare l’articolo in questione, scorrendolo per commi e tentando l’ardua impresa di coglierne il significato. Ardua impresa non solo per l’estensione della disposizione, che si compone di 7 commi, 1.020 parole, 7.232 battute, ma anche perché, affrontando quello che gli esperti indicano come uno snodo cruciale per contenere e spegnere la diffusione del virus, essa non risparmia quantità massicce di riferimenti normativi (da consultare uno per uno per capire di volta in volta di che si tratta) e di termini assenti dal linguaggio corrente, come “pseudonimizzazione” – troppo facile l’equivalente “uso di pseudonimo”? –, mentre è assai parca di punti fermi.

Il comma 1 più che una norma di legge è una manifestazione di intenti. Il governo informa che «è istituita una piattaforma unica nazionale per la gestione del sistema di allerta», ma il verbo indicativo è in realtà un “ottativo”. Si comprende (quasi) subito che sarà una storia lunga, perché il ministero della Salute dovrà sentire il ministro degli Affari regionali – non sottilizzo sul fatto che il dialogo non è omogeneo, “ministero” nel primo caso, “ministro” nel secondo – e poi entrano in gioco la Protezione civile, l’Istituto superiore di sanità (Iss), le strutture operanti nel Sistema sanitario nazionale (Ssn), e infine la Conferenza Stato-Regioni. Né sottilizzo sul fatto che l’Iss è una articolazione del ministero della Salute e che a quest’ultimo fa capo il Ssn, sì che non è chiaro perché il ministero della Salute non realizzi un immediato coordinamento con le Regioni, vista la competenza ripartita fra l’uno e le altre, pur se con prevalenza delle seconde.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Il comma 2 fa entrare in scena il Garante della privacy e assicura che ogni utente dell’app verrà reso «pienamente consapevole» di ciò che in questo momento, stando alle cronache mediatiche, non è stato neanche definito, e cioè le tecniche per garantire l’anonimato e le modalità e i tempi di conservazione dei dati; e quindi non è nella “piena consapevolezza” neanche del governo.

Se il comma 3 garantisce che la finalità dei dati acquisiti con l’app sarà esclusivamente la gestione dell’allerta, e al più il loro uso aggregato per la sanità pubblica, il comma 4 fornisce una ulteriore assicurazione: chi non utilizzerà l’app non sarà penalizzato o discriminato.

Il comma 5 conferisce “titolarità pubblica” alla “piattaforma”, mentre il comma 6 stabilisce che quest’ultima cessa col termine dello stato di emergenza, e comunque entro il 31 dicembre 2020, con la cancellazione di tutti i dati. Il comma 7 prevede la copertura finanziaria.

Un tale dispendio di commi e di parole lascia aperti molti – troppi – interrogativi:

  1. che cosa accade in concreto una volta che scatta l’allerta? Chi informa chi? E qual è l’oggetto preciso della comunicazione? Confesso i miei limiti: non lo ricavo dalla lettura di quella che pure – lo ripeto – è la prima norma dedicata alla app. È però la prima cosa che andrebbe ben spiegata.
  2. Il commissario dott. Arcuri, parlando in conferenza stampa il 28 aprile ha asserito che l’app «farà scattare l’alert quando ad esempio il signor Rossi avrà avuto un contatto stretto per più di 15 minuti con una persona positiva». E ha aggiunto che «la distanza di rischio per noi è (…) una quantità di metri più vicina ai due che non all’uno». Dunque, se io entro in metropolitana e per 12 minuti – un tempo medio di percorrenza in un mezzo pubblico veloce – mi trovo a breve distanza da un soggetto portatore del virus non scatta alcuna allerta, pur se entrambi abbiamo attivato l’app. È rassicurante? È vero che il tempo di esposizione deve essere apprezzabile, ma così non è tanto?
  3. Che cosa vuol dire in concreto che «il mancato utilizzo dell’app (…) non comporta alcuna conseguenza pregiudizievole»? Mi spiego. Il sistema di identificazione ai fini dell’accesso a servizi di amministrazioni centrali e territoriali – il cosiddetto Spid – non è obbligatorio. Però se io non ne dispongo sono fortemente pregiudicato: non riesco a pagare online neanche una contravvenzione: non è il caso di essere meno generici nelle assicurazioni? Di più. Nel momento in cui l’app diventi operativa mi si dice che sono libero di non scaricarla: se però non la scarico e domani il signor Rossi viene contagiato il mio comportamento omissivo potrebbe essere qualificato negligente, e quindi colposo, e sarei chiamato a risponderne in giudizio in sede civile e/o penale; la vaghezza della formulazione normativa non esclude questa ipotesi. Provo a ribaltare il discorso: sul presupposto che la prevenzione funzioni al meglio, e quindi che l’app venga utilizzata dal maggior numero possibile di italiani, si identifichino incentivi al suo uso, si confermino effettive garanzie, si escludano le fasce di popolazione che – per età o per disabilità – non la adopereranno mai, ma la si renda efficace. In una parola, si adoperi un linguaggio di verità, all’insegna del “cari italiani, alcuni vostri diritti potrebbero essere compressi ma sull’altro piatto della bilancia la salute pubblica ne beneficerà”. In quest’ottica, l’esclusione della geolocalizzazione (co. 2, lett. c) è un limite alle sue potenzialità.
  4. L’obiettivo di «una piattaforma unica nazionale per la gestione del sistema di allerta» è ambizioso e auspicabile. Peccato che i protocolli sanitari delle Regioni italiane – e i correlativi sistemi informatici – siano l’uno diverso dall’altro: siamo sicuri che il dialogo informatico fra i differenti sistemi si raggiunga prima della fine dell’emergenza, e quindi del termine di vita dell’app? Questo per non toccare il tasto della pur necessaria interazione dell’app con sistemi analoghi di altri Stati europei: o immaginiamo che l’autista di Tir, inconsapevole portatore del virus, lasci quest’ultimo al Brennero prima di entrare in Italia?

L’art. 6, come l’intero D.L. n. 28, sarà sottoposto all’esame del Parlamento per la conversione in legge. È illusorio attendersi che Camera e Senato pretendano dal governo e forniscano alla nazione risposte plausibili ai quesiti appena sintetizzati?

Foto Ansa

Tags: Alfredo MantovanoappCoronavirusimmuni
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