Con Letta destra e sinistra finalmente comunicano. Ora una fase costituente per il presidenzialismo

Di Lodovico Festa
05 Maggio 2013
Per passare dalla tregua attuale a un solido assetto fondato su istituzioni che poggino fino in fondo sulla sovranità dei cittadini serve una riforma dello Stato in senso presidenzialista

Con il governo Letta si apre un’interessante nuova fase per l’Italia. Il tentativo di impedire a parte rilevante della società di concorrere alla direzione dello Stato ha subìto una sconfitta forse non definitiva ma campale. La portata dell’occasione che si offre alla nazione non va sottovalutata: il meccanismo di esclusione non poggiava solo su motivazioni ideologiche ma sulla difesa di una concezione elitistica dello Stato e sulle necessarie alleanze che questa concezione implicava (per esempio con un certo sindacalismo centralistico), che aveva effetti economici allargati (si consideri quelli sulla struttura della finanza italiana) nonché una diminuzione netta della sovranità nazionale per uso delle influenze straniere nel tenere sotto controllo la situazione interna. Allargare le basi dello Stato diventa quindi anche via concreta per assumere i provvedimenti di emergenza ora necessari: lavoro, sostegno alla produzione, contrasto alla povertà e contrattazione dei rapporti con gli altri Stati dell’Unione.

Si è creato un varco per uscire dalla crisi di lungo periodo dello Stato e della nazione, resta però la complessità delle scelte ancora di fronte a noi, cioè come trasformare la caduta del muro dell’incomunicabilità tra destra e sinistra in fase costituente. Non è semplicissimo: si considerino la protesta irrazionale espressa dai grillini o la persistenza dei poteri oscuri che hanno segnato la vita di questi ultimi venti anni (a partire dai settori combattenti della magistratura). Il problema centrale sarà quello di pensare la forma di Stato necessaria ad affrontare la nuova fase. E in questa impresa uno degli ostacoli con cui ci si confronterà sarà il consolidato conservatorismo che si annida nel Pd: sia nell’integralismo dossettiano che considera ogni revisione della Costituzione un atto quasi irreligioso, sia nell’area postcomunista segnata dalla paura togliattiana per le modifiche di istituzioni figlie del compromesso per “evitare il peggio” realizzato nel ’47-’48. Il timore del Pci per il “nuovo” ha bloccato l’Italia per tutti gli anni Ottanta, e ha poi fatto sì che le riforme elettorali e quelle ancora più incisive (sindaci, regioni) venissero compiute solo sotto l’onda di referendum e demagogie senza una visione d’insieme. Questa sorta di oscurantismo, frutto sia di sentimenti nobili sia di interessi da nomenklatura, si esprime ancora oggi nelle parole di Pier Luigi Bersani quando maledice ogni forma di presidenzialismo come deriva sudamericana. Ma è proprio questa scomunica che ne rileva a pieno la miopia. È considerando le vicende dell’America latina che ci si può rendere conto quanto lì – finita la Guerra fredda con le alternative tra soluzioni radicali (tipo Fidel Castro o Augusto Pinochet) o compromessi per evitare quegli esiti – si affermi la necessità di una verticalizzazione della politica anche per diminuirne la pervasività, connaturata a qualsiasi sistema tendenzialmente proporzionale. È proprio esaminando i casi magici del Brasile, del Cile e oggi del Messico che si apprezzano le virtù di presidenzialismi pur non privi di difetti. E anche dove questi sistemi determinano effetti meno desiderabili (certe privatizzazioni in Bolivia), questi sono comunque temperati da un’entrata nello Stato di settori secolarmente estromessi (così la popolazione india) che nel medio periodo darà sicuramente risultati positivi. E così anche in Venezuela dove pesa la cosiddetta “maledizione del petrolio”, cioè la distribuzione corruttiva di una ricchezza nazionale, o in un’Argentina dove invece del sindacalismo alla cislina del brasiliano Lula pesa quel sindacalismo centralista e paralizzante che ben conosciamo.

Anche il Corriere della Sera e gli elettori grillini tra gli inediti alleati
Una riforma dello Stato in senso presidenzialista deve diventare l’obiettivo di chi vuole passare dalla tregua attuale a un solido assetto fondato su istituzioni che poggino fino in fondo sulle scelte dei cittadini e siano in grado di affermare la nostra sovranità nazionale sia pure nel contesto dell’auspicabile integrazione europea, ma in un processo in cui non solo Berlino, Parigi e Londra siano regine, e Roma non conti meno di Madrid e Varsavia. Non è una strada semplice perché il groviglio che condiziona il potere italiano è complesso e perché il centrodestra, che dovrebbe essere uno dei protagonisti di questa lotta, non brilla particolarmente nelle guerre culturali. Però è importante notare quanti alleati si stiano schierando per questo fine: da Matteo Renzi a una schiera ampia di opinionisti del Corriere della Sera, per non parlare delle sponde che una scelta presidenzialista trova nell’elettorato se non nei vertici grillini. Per battere diffidenze che si annidano sia tra i postcomunisti sia in aree del cattolicesimo nazionale sia in certo municipalismo, senza parlare dei poteri oscuri che difenderanno con unghie e denti la propria influenza, bisogna studiare bene come il nostro presidenzialismo possa nascere con i necessari bilanciamenti. Non è uno sforzo impossibile e la meta vale la fatica per raggiungerla.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.