Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Riportiamo di seguito il botta e risposta avvenuto via e-mail tra un lettore e Luigi Amicone. Lo spunto è l’articolo “Lettera aperta ai Padri sinodali di un figlio di divorziati risposati. Cioè io”, firmato dal direttore di Tempi e pubblicato sul nostro sito lo scorso 17 ottobre.
20 ottobre
Gentile direttore Amicone, ho letto con attenzione e partecipazione il suo articolo “Lettera aperta ai Padri sinodali di un figlio di divorziati risposati. Cioè io” e i commenti che ne sono seguiti. Le voglio offrire anche io un piccolo pezzo di «me stesso invece che una mera opinione». La separazione dei miei genitori è stata una svolta fondamentale nella mia vita di (ormai ex) credente, nel senso che mi ha allontanato dalla Chiesa.
Ho frequentato il movimento di Comunione e Liberazione per anni: Gioventù Studentesca, gli universitari di Cl, le vacanze estive, l’esperienza meravigliosa del lavoro negli alberghi. Ho perfino fatto in tempo ad ascoltare don Giussani a una conferenza dal vivo. Ero in cerca, spinto dal senso religioso che tutti noi abbiamo costituzionalmente in corpo, di risposte al mio desiderio di Infinito; attratto come una calamita verso una proposta cristiana che non fosse moralistica e astrattamente dogmatica.
Già a quel tempo, però, il matrimonio dei miei genitori scricchiolava paurosamente e si trascinava penosamente, ormai da lustri, fra alti e bassi. A un certo punto, credo a una “scuola di comunità” (la catechesi di Cl, ndr), viene citato questo episodio attribuito a don Giussani stesso: una donna si confida con lui, gli racconta le pene del suo matrimonio. La risposta del Giuss, come venne citata, fu: «Offri tutto questo per la maggior gloria di Cristo».
Ecco, la cosa mi colpì nel profondo, mi colpì nella carne. Avevo sotto gli occhi la condotta di mio padre, un padre a cui voglio bene: se penso a lui mi prende uno struggimento e una tenerezza infinita. Ma tenerezza e struggimento non cancellano il fatto che sia stato il peggiore dei mariti possibili per mia madre. Avevo sotto gli occhi anche lo struggimento doloroso di mia madre, una madre profondamente cattolica. Il mio sguardo si posava su questi avvenimenti, e le parole del Giuss mi martellavano nella testa e nel cuore. Ma come potevo, da figlio, da essere umano, guardarla negli occhi e chiederle di «offrire tutto per la maggior gloria del Signore»? Come potevo ignorare il dolore e la pena che provava, i pianti, la depressione, il senso di colpa per colpe che non aveva… e perfino i commenti dei preti che la incoraggiavano ingenuamente «ad essere più dolce e comprensiva»? (Magari si sposassero anche i preti: quante cose capirebbero).
Lei, direttore, a un certo punto dice che da figlio adolescente, attraverso la fede, è diventato uomo: figlio e in qualche modo (aggiungo io) anche padre, perché sostegno, conforto, amico dei suoi genitori e tutto questo essendo saldo e certo della paternità della Chiesa su di sé.
Per me è stato completamente diverso. Non me la sono sentita di chiedere una cosa simile a mia madre, non me la sono sentita di spingerla a permanere in una condizione che la stava lacerando. Io e mio fratello le abbiamo dato il coraggio che cercava e la cosa mi ha definitivamente allontanato dalla Chiesa. E cuore, ragione, la ritrovata serenità di mia madre mi dicono, mi dimostrano, che fu decisione giusta. Il prezzo da pagare però è stato la perdita della fede. Un commentatore, rispondendo alla mia frase «cosa sia giusto per gli altri non deve, non può, deciderlo lei», ha scritto: «Infatti lo decide Dio, non io». Ecco, magari non voleva, ma ha colpito nel segno. Nel segno perché la vita ti può gettare una Croce (una malattia, un incidente, la perdita prematura di una persona cara), ma non riesco ad accettare una fede, una proposta per la vita, che ti chiede non già di accettare una croce inevitabile, ma di prendere assi e chiodi e costruirtene una alla quale tu stesso ti devi inchiodare. O peggio ancora, ti dice di chiedere questo sacrificio alla persona che più ti è cara, alla persona che ti ha dato la vita. E tutto questo, paradossalmente, per il centuplo qui in terra.
Andrea
Ps. Oggi il dibattito sulla Comunione a divorziati e risposati è quanto mai di attualità. Come ho già scritto nei commenti, non chiedo alla Chiesa di cambiare dottrina: non può e non deve farlo. Quello che però, a mio modesto avviso, deve fare se vuole avere la pretesa di proporre una visione per l’Uomo, per il suo compimento, per la sua felicità, è di trovare il modo di includere maggiormente le persone risposate nella vita della stessa Chiesa. So che si obietterà che la cosa già accade. Io invece non la do per scontata. Quarant’anni fa (un battito di ciglia nella millenaria storia del cristianesimo) una donna che avesse lasciato il marito sarebbe stata additata dal pulpito (“peccatrice, adultera!”). Forse ancora qualcosa in più si può fare: ai Padri sinodali l’arduo compito di trovare come, rimanendo fedeli alla parola di Dio. Saluti.
20 ottobre
Caro Andrea, ti scrivo di getto e ti rispondo che sono sicuro che quella frase di don Giussani ripetuta da uno che non è Giussani non poteva che avere quell’effetto lì, perché così è principio di un saggio, una auctoritas, una legge, colà (in bocca al Giuss quando precisamente la pronunciò) è un rapporto. Tu saresti potuto salire sul palco subito dopo che avevi sentito dire da don Giussani una “mostruosità” del genere (e dico consapevolmente “mostruosità” perché non può non ferire l’umana ragione), e lui ti avrebbe detto: «Scusa, cosa posso fare? Cosa possiamo fare? Intanto, stiamo insieme. Voglio che tu mi tenga informato tutti i giorni e se c’è qualcosa che io posso fare, dimmelo, sono con te». Ecco la differenza. E se mi hai scritto vuol dire che da qualche parte della tua testa e del tuo cuore questa differenza la sapevi già. Comunque, il passato è passato. E l’adesso?
Ciao, non voglio essere invadente ma se per caso volessi passare di qua a bere un caffè, io sto in via Confalonieri 38 a Milano e il mio numero è questo, ciao.
Luigi Amicone
Ps. Più precisamente: “apparenza di mostruosità”!
20 ottobre
Caro Luigi (scusami se mi permetto il tu), sono sbalordito e grato che tu abbia avuto la pazienza di leggermi e rispondermi personalmente. È un segno buono, concreto, di amicizia. Una amicizia preziosa anche se non ci siamo mai incontrati di persona. Chiedo scusa se il mio commento al tuo articolo possa apparire duro, drastico o scortese ma l’argomento toccava corde sensibili e mi riportava a una pena familiare (litigi, separazione, divorzio) che è durata almeno quindici anni. Comunque non sono stato del tutto sincero: la fede non si perde mai completamente perché alla fine noi siamo sempre “povera voce” che chiede l’eternità. Sì, lo ammetto, è come tu mi scrivi intorno a quella frase di don Giussani, «vuol dire che da qualche parte della tua testa e del tuo cuore questa differenza la sapevi già».
Io non vado più in chiesa, non mi comunico e non mi confesso da almeno quindici anni. Ma l’amicizia e i rapporti che sono nati dentro l’esperienza del movimento sono fra le cose più care che ho. Questa cosa, questo sentire, il loro essermi così cari e preziosi, in questi anni è sempre rimasta sotto traccia, interiorizzata, non si è mai palesata apertamente. Ma quest’anno, il 27 luglio, un giovane amico, marito di una ragazza che mi è sempre stata molto vicina negli anni del movimento, è morto. Morto sotto le mani della moglie che cercava di rianimarlo, sotto gli occhi della figlia undicenne. È stato… beh, come puoi immaginare non ci sono parole per dire cosa sia stato.
Però qualcosa è accaduto, qualcosa è passato, un seme fecondo è caduto in terra. Al rosario (sì, ai matrimoni e ai funerali ci vado), poi al funerale, al cimitero per accompagnarlo fino alla sua ultima dimora terrena. Guardavo questi volti cambiati dal tempo (ho 43 anni e ho conosciuto Gs a 17) e mi erano così familiari e intimi, come se il tempo non fosse mai passato.
Li guardavo e provavo gratitudine per quelle persone. Persone che non vedevo da anni, altre che saltuariamente frequento ancora. Gratitudine e sorpresa: non c’è stato solo il movimento di Comunione e Liberazione nella mia vita, non sono le uniche persone in gamba e di cuore che abbia mai conosciuto. Ce n’è tanta di brava gente al mondo: basta non distogliere lo sguardo e aver la pazienza di conoscerle.
Eppure solo loro mi fanno questo effetto. Allora lì, sul sagrato, sul brecciolino del viale del cimitero, finalmente ho capito perché mi erano così care: avevo bisogno di loro, anche della loro semplice esistenza, per tenere viva la speranza della mia “povera voce” che chiede l’eternità. La loro semplice esistenza è conforto, un fattore positivo, uno sguardo buono che salva tutto, non butta via niente, nemmeno il dolore.
Ecco, questo le volevo dire. Non ho mai trovato una fede piena, semplice, genuina, ma – parafrasando un canto imparato durante gli anni in cui ero in Cl – «degli amici grandi grandi, che più grandi non ce n’è». Così grandi che non ho nemmeno bisogno di frequentarli: mi basta sapere che ci sono per tenere a bada il cinismo e il disincanto che, inevitabilmente, noi tutti atei abbiamo.
Andrea
21 ottobre
Con alcuni amici stretti, miei e di Elisabetta (moglie di Davide, l’amico morto a luglio), mi sono permesso di condividere alcuni pensieri. Eccoli.
Cari amici, questo è un modo per dirvi grazie. Per capire tutto dovete avere un po’ di pazienza e leggere parecchie righe. Tutto è nato da un articolo del giornale Tempi edizione online… (segue sintesi dello scambio di e-mail pubblicato qui, ndr)
Tutto qui. È poco ma è tutto allo stesso tempo: è un grazie, un grazie che non avevo mai pronunciato perché non mi ero accorto pienamente di aver ricevuto qualcosa, qualcosa di così prezioso. Perché non è stata solo una amicizia, un incontro, ma una amicizia e un incontro con una promessa e un mistero grande grande, così grande che perfino un ateo a un certo punto non può far finta di vederlo. Grazie di cuore, vi abbraccio fraternamente tutti.
Andrea
Foto Ansa