Squalo chi legge
Come stanno insieme l’unica vita e l’unico amore che abbiamo?
Questo articolo fa parte di “Squalo chi legge”, newsletter settimanale di recensioni di libri, consigli per la lettura, testi da tenere sul comodino liberamente scelti dalle firme di Tempi. Più qualche stroncatura. Una indispensabile miscellanea di opere nuove, in uscita o ripescate, alcune famose, altre sconosciute o magari dimenticate, ognuna da leggere (o da cestinare) per un motivo preciso.
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Pochi giorni fa gli studenti del Laboratorio teatrale della scuola Don Carlo Gnocchi di Carate Brianza (liceo classico, scientifico, scienze applicate, economico-sociale e istituto alberghiero) hanno messo in scena, sotto la guida di Andrea Carabelli – regista – e di Marina Fumagalli e Marta Parravicini – insegnanti – La bottega dell’orefice, testo composto da Karol Wojtyla nel 1960, prima di diventare arcivescovo di Cracovia.
Scelta impegnativa. Quasi due ore di “teatro rapsodico”, fatto di parola piuttosto che di azione scenica, qui impreziosita dalla presenza essenziale della musica.
Scelta coraggiosa, ai limiti dell’incoscienza. Affidare il pondus, il peso, di queste “Meditazioni sul Sacramento del matrimonio che di tanto in tanto si trasformano in dramma” alle voci, ai gesti, ai corpi di una trentina di ragazzi delle scuole superiori!
Ma in tempi come questi, in cui latitano adulti impegnati fino al collo in questo «correre alla morte» (Dante) che è la vita, sicuri che di un “correre al Destino” si tratta, forse non è azzardato tenerci cara e ascoltare «la voce dei bimbi e dei lattanti», come il salmista proclama.
Andrea e Teresa
Il dramma racconta le vicende, tra loro intrecciate, di tre coppie alle prese con l’amore e il matrimonio: «Uno di quei processi che saldano l’universo, uniscono le cose divise, arricchiscono quelle grette e dilatano quelle anguste».
Dapprima, Andrea e Teresa, dal giorno del fidanzamento, quando si comincia a «presentire il peso della vita» al matrimonio, ai figli, alla guerra in cui Andrea, marito e padre, troverà la morte: «Perché l’uomo non riesce a durare nell’altro senza fine e l’uomo non basta».
Stefano e Anna
Poi Stefano e Anna, quando comincia a dominare l’estraneità, e «rimane solo l’insieme dei doveri, un insieme convenzionale e mutevole, sempre più spoglio del puro sapore dell’entusiasmo». Si apre la crepa, la più prossima e profonda: l’amore, questo «inno cantato con tutte le corde del cuore», tace. Al suo posto prende a parlare il ghigno del rancore e della delusione. Tutto pare frantumarsi: «Perché vuoi vendere la tua fede?», domanda Adamo, l’uomo, ad Anna. «Cosa vuoi fare a pezzi con questo gesto? La tua vita? Ma la vita non si vende ogni momento? Non si fa a pezzi tutta la vita con ogni gesto? E allora? Non si tratta di andarsene, di vagare per giorni, per mesi, forse per anni – si tratta piuttosto di tornare, di trovare se stessi al posto di prima. La vita è un’avventura che ha anche una sua logica e coerenza – e non si può lasciare il pensiero e l’immaginazione a se stessi!».
«Con che cosa allora devono stare?», domanda Anna.
«Il pensiero – evidentemente – deve stare con la verità».
«L’amore», dice Adamo, «non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio – solo lui è Eternità. L’uomo si tuffa nel tempo. Dimenticare, dimenticare. Esistere solo un attimo, solo adesso – e recidersi dall’eternità. Prendere tutto in un momento e tutto subito perdere. Ah, maledizione dell’attimo che arriva dopo e di tutti gli attimi che lo seguono, nei quali cercherai sempre la strada per ritornare a quello già trascorso, per averlo di nuovo e, attraverso quell’attimo, tutto».
E se anche l’uomo si recide dall’eternità e se ne va, fino a buttarsi via, non così lo Sposo che viene e che resta:
«Lo Sposo passa per questa strada e passa per tutte le strade! Come posso persuaderti che tu sei la Sposa. Bisognerebbe adesso perforare la crosta della tua anima come quando nel sottobosco e nel suolo si cerca la sorgente d’acqua tra il verde. Sentiresti allora il richiamo: oh, mia amata, tu non sai quanto mi appartieni, non sai quanto appartieni al mio amore e alla mia pena – perché amare vuoI dire donare la vita attraverso la morte, amare vuoI dire sprigionare dalle profondità dell’anima l’acqua viva della sorgente, l’anima che brucia, arde senza fiamma, ma non riesce a ridursi in cenere».
Monica e Cristoforo
Da ultimo, Monica, figlia di Anna e di Stefano, gli estranei, e Cristoforo, figlio di Teresa e di Andrea, morto in guerra. Per un testo come questo, messo in scena da ragazzi davanti ai loro genitori, è in qualche modo l’epicentro di tutto il dramma. Il silenzio in sala, che si è protratto anche dopo la conclusione della rappresentazione, ne è stata la più eloquente delle verifiche. Monica sconta infatti la pena dell’amore tradito, «l’amore snaturato, l’amore infedele al suo principio» di cui ha scritto Mario Luzi.
Dice Teresa, la vedova, quasi tremando:
«Ecco l’eredità di Monica; la spaccatura di quell’amore si è impressa così profondamente in lei che anch’esso prende origine da lì».
«Forse il vecchio orefice [Dio] ha perso ormai la forza del suo sguardo e della sua parola? O forse loro non sono stati in grado di recepirla, di sentire ciò che è nascosto nelle sue parole e nei suoi occhi? Sono forse diversi, loro?
[…]
Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l’amore. Certe volte invece no – l’amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l’uomo ha a disposizione una esistenza e un amore – come farne un insieme che abbia senso? Eppoi questo insieme non può essere mai chiuso in se stesso. Deve essere aperto perché da un lato deve influire sugli altri esseri, dall’altro riflettere sempre l’Essere e l’Amore assoluto. Deve rifletterli almeno in qualche modo.
È questo anche il senso ultimo delle vostre esistenze:
Teresa!
Andrea!
Anna!
Stefano!
e anche delle vostre:
Monica!
Cristoforo!».
Se tra chi legge queste righe ci fossero insegnanti e genitori, suggerirei loro di non limitarsi a rileggere queste meditazioni di Wojtyla, ma di prendere contatto con l’Istituto Don Gnocchi di Carate per invitare i ragazzi del laboratorio teatrale a rappresentare La bottega dell’orefice presso il loro paese o, meglio ancora, presso la loro scuola.
Andrzej Jawien (Karol Wojtyla), La bottega dell’orefice. Meditazioni sul sacramento del matrimonio che di tanto in tanto si trasformano in dramma, 1960, edizione italiana Libreria Editrice Vaticana
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