Come si viene fuori dalla “vicenda Palamara”
Articolo tratto dal numero di luglio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
In che termini descrivereste la “vicenda Palamara”? Come la violazione di un codice deontologico, che ha visto un ex presidente dell’Anm e un gruppo di colleghi pilotare le nomine dei titolari di importanti uffici giudiziari? Come l’interferenza, circoscritta a quelle persone, nell’attività di un organo di rilievo costituzionale, quale è il Csm? Se la risposta a queste domande è affermativa, ci si può acquietare per il doveroso avvio dell’azione disciplinare, in parallelo a una azione penale i cui sviluppi erano per la verità già emersi più d’un anno or sono.
Se invece vi è rimasto il dubbio che quanto emerso attorno agli sforzi del dottor Palamara e dei suoi amici non costituisca una deplorevole ma limitata deviazione da una prassi altrimenti adamantina, converrete che portare da 24 a 30 i componenti del Csm e modificare in senso maggioritario il sistema elettorale dei togati del Consiglio non appaiano i rimedi efficaci alla bisogna, poiché non sfiorano uno solo dei nodi problematici emersi già da più d’un anno, e anzi se mai rischiano di accentuarlo.
La matassa è intricata: ma il bandolo di essa, come per ogni istituzione, è il “capitale umano”. Come si viene fuori da un sistema che fino a ieri era ritenuto normale? Un sistema nel quale l’attribuzione di un posto direttivo in magistratura ha seguito logiche simili a quella di un direttore generale della Rai; nel quale a parità di merito chi non fosse incardinato in una corrente è stato penalizzato; nel quale le spartizioni più serrate sono state quelle per i posti di procuratore, a causa del potere che ciascuno di essi esercita quando dispone della polizia giudiziaria: lo ha ha ricordato Palamara nel profluvio di interviste delle ultime settimane, ma, francamente, non colgo lo scoop.
Il mestiere del giudice è complicato e difficile. Esige conoscenza di norme specifiche e di orientamenti giurisprudenziali pure europei; studio attento del caso concreto che tratta; consapevolezza che non gli viene chiesto un giudizio su una persona, bensì su un fatto specifico che quella persona ha commesso; assenza di qualsiasi pregiudizio. Esiste un concorso in grado di valutare queste capacità? Non solo non esiste, ma sarebbe illusorio ritenere di poter verificare tutte queste doti già all’avvio del lavoro di giudice: più d’una si forma in corso d’opera.
Il che però non può far ritenere soddisfacenti l’attuale modalità di accesso alla funzione, e la successiva progressione in carriera: un mix fra buona preparazione teorica – per superare il concorso –, un solido aggancio correntizio – per fare carriera –, e l’altrettanto solida convinzione, autorevolmente teorizzata, che spetta alla giurisdizione imporre coi suoi provvedimenti il nuovo quadro dei valori costituzionalmente e convenzionalmente orientati. Questo mix oggi fa vedere i suoi gravi limiti.
La conoscenza dei codici e della giurisprudenza, quando esiste, non basta per far bene il giudice: il pilota di un aereo o il dirigente di polizia devono sottoporsi a vagli attitudinali e di equilibrio, e per il magistrato va già bene che sia “soltanto” preparato? Per dirigere un ufficio giudiziario il cursus honorum correntizio non è il di più che serve. Infine, per rendere giustizia come la Costituzione impone, allorché assoggetta il giudice “solo alla legge”, la legge va applicata, non creata: il giudice non è l’intermediario fra il caso concreto e un sentimento di giustizia che attinge da altri ordinamenti o da norme della Convenzione Edu, declinati secondo le proprie lenti ideologiche.
Questi sono i nodi dalla cui soluzione dipende una giustizia migliore. Poi, certo, vi sono la separazione delle carriere, la riforma del giudizio disciplinare, le riforme dei codici, in particolare quello del processo penale, e tanto altro. Ma in un corpo giudiziario che, in virtù del rapido abbassamento dell’età pensionabile deciso di recente, ha visto moltiplicare le ambizioni di avanzamento in carriera fin dalla giovane età, di pari passo a un’autoreferenzialità ideologica sbandierata come segno di democrazia pur quando sovrasta le Camere, questa è l’ineludibile partenza. Per un Parlamento e per un governo che sappiano cogliere il peso della posta in gioco e non si accontentino di omelie moralistiche.
Foto Ansa
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