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Colonne infami

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«Oltre alla sindrome da sottosviluppo, da alcun decenni, fornisce argomenti ai nemici della società aperta anche il circo mediatico-giudiziario. Il suo incessante operare ha prodotto due conseguenze: ha annullato, in primo luogo, nella coscienza di tanti, il principio fondamentale su cui si regge la società libera, la distinzione e la separazione fra il “peccato” e il “reato”, fra l’etica e il diritto. Ha convinto molti, in secondo luogo, che la politica rappresentativa sia in mano ai corrotti e che occorra quindi ristabilire – contro la politica rappresentativa – il governo della virtù».

Angelo Panebianco Corriere della Sera, 22 settembre 2017

* * *

La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera…

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Il Piazza – l’uomo dalle mani sporche, forse quello che la donna ha intravisto, arrestato come untore, sospettato di spargere la peste nella città – è interrogato sulla sua professione, sulle sue operazioni abituali, sul giro che fece il giorno prima, sul vestito che aveva; finalmente gli si domanda: se sa che siano stati trouati alcuni imbrattamenti nelle muraglie delle case di questa città, particolarmente in Porta Ticinese.

Risponde: mi non lo so, perché non mi fermo niente in Porta Ticinese.

Gli si replica che questo non è verisimile; si vuol dimostrargli che lo doveva sapere… Gli fu domandato chi eran quelli con cui s’era trovato; rispose: che li conosceva solamente di vista e non di nome.

E anche qui gli fu detto: non è verisimile. Terribile parola…

(…)

Avevan cominciato con la tortura dello spasimo, ricominciarono con una tortura d’un altro genere.

D’ordine del senato, l’auditor fiscale della Sanità, in presenza d’un notaio, promise al Piazza l’impunità, con la condizione che dicesse interamente la verità.

(…)

È che non cercavano una verità, ma volevano una confessione.

Vien fuori un nome, quello di Giangiacomo Mora, barbiere: il Piazza dice che è lui ad avergli dato il mortifero unguento.

E se qualcosa potesse accrescer l’orrore, lo sdegno, la compassione, sarebbe il veder que’ disgraziati, dopo l’intimazione d’una tal sentenza, confermare, anzi allargare le loro confessioni, e per la forza delle cagioni medesime che gliele avevano estorte. La speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone. Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que’ giudici, non solo a fare atrocemente morir degl’innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli.

I due, insieme ad altri imputati, i cui nomi sono stati estorti nella maniera sopra descritta, finiscono per essere condannati a morte.

La sentenza viene eseguita il due agosto del milleseicentotrenta.

Quell’infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l’ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo.

La colonna resterà al suo posto fino all’anno millesettecentosettantotto.

Che dire?

Se, in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggimento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla.

Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori.

Da più di vent’anni abbiamo a che fare con la questione della giustizia e della sua amministrazione. La questione della separazione (o distinzione) delle carriere è solo uno dei punti sul tappeto. Ci sono anche quelli dell’obbligatorietà dell’azione penale (una vera chimera piena di arbitrio), del Csm e del rapporto giustizia/informazione.

Più in generale il fatto che attraverso l’applicazione (spesso irragionevole o politicizzata) della legge si tenda a creare una nuova morale e che si pensi di utilizzare lo strumento giustizia non per accertare o meno reati, ma per risolvere questioni endemiche o sociali (la violenza, la corruzione eccetera).

Altro che il diritto succube della morale, ormai è la morale (quale?) che rischia di essere succube dell’applicazione del diritto.

Pare che Manzoni avesse capito molte cose.

(In corsivo frammenti tratti dalla Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni)

Incisione Colonna infame di Milano (1843) da Shutterstock

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