La promessa “grande stagione delle riforme” torna a bussare alle porte: ce la farà anche l’Italia ad avviarsi verso la necessaria trasformazione del Welfare, di cui la revisione del sistema pensionistico rappresenta uno dei nodi cruciali? Nessuno pare oggi avere più alcun dubbio sulla necessità di un rinnovamento dello stato sociale, e il governo promette di darci entro il nuovo anno quella “normativa intelligente, quel sistema di imposte e benefici semplice, equo, decentrato” che porterà ad “una redistribuzione delle opportunità e del reddito a favore delle giovani generazioni” – almeno secondo le intenzioni del presidente del Consiglio Massimo D’Alema.
Ballando sul Titanic Ma per la previdenza, il settore che più di ogni altro ci porta fuori linea rispetto alla spesa sociale di tutti gli altri paesi europei (il volume delle risorse assorbite dal comparto pensionistico eccede la media europea per circa 4 punti percentuali del Pil), al di là della propaganda e della retorica di regime, sembra difficile che l’attuale governo riuscirà a mettere a punto interventi organici ed incisivi. C’è anzi da temere che il frutto di tanti dibattiti sul nuovo patto sociale – i cui primi risultati sarebbero attesi già a partire dalle prossime settimane settembrine, quando si aprirà il confronto con le parti sociali e si cercherà l’intesa coi sindacati – finisca per risolversi in un ennesimo funambolico saggio della proverbiale “arte del rattoppo”. Troppi infatti appaiono i privilegi e gli interessi acquisiti messi in discussione perché un giorno D’Alema o Amato sottolineino l’urgenza del problema pensioni, il giorno seguente il ministro del Lavoro Cesare Salvi o un qualche esponente sindacale smentiscano tutto, sempre esigendo il rinvio di ogni verifica al fatidico 2001, “perché non esiste alcuna emergenza previdenziale o dei conti pubblici. Nulla che costringa ad accelerare una verifica” (così Raffaele Minelli, segretario generale Spi Cgil). Purtroppo la matematica non è un’opinione: i numeri possiedono ancora una qualche oggettività, e quelli del nostro bilancio parlano chiaro sul prossimo futuro del Bel Paese, gettando più di un inquietudine sulla prospettiva di prolungare ulteriormente l’apnea del sistema previdenziale. Senza arrivare alle previsioni catastrofiche delineate dall’ultimo rapporto del Cebr di Londra (si veda Tempi, n. 28) – secondo il quale l’Italia, insieme alla Francia, è uno dei paesi più vicini al collasso per la spesa pensioni – basterebbe consultare il più equilibrato studio del Censis sulla previdenza in Italia (aprile ’99) per capire su che orlo di baratro stiamo più o meno allegramente appollaiati.
Tot disoccupati, tot pensionati privilegiati È noto che nel nostro paese, dal 1968, è stato introdotto il sistema previdenziale a ripartizione, che si basa sull’equilibrio del rapporto tra lavoratori attivi e pensionati (e ha come presupposto che redditi e popolazione crescano), un impianto che non è stato modificato dai successivi interventi, nemmeno con la legge n. 335 approvata dall’esecutivo di Lamberto Dini nel ’95 (e coi successivi ritocchi di Prodi, nel ’97). Ebbene, per effetto delle nuove tendenze demografiche – che vedono un tasso di natalità sceso abbondantemente al di sotto del “livello di ricambio” – la situazione è arrivata ad uno squilibrio tale che in Italia esistono oggi più pensioni che occupati (22 milioni di pensioni, tra previdenziali, assistenziali, indennitarie e di benemerenza contro meno di 21 milioni di occupati), e si calcola che nel 2040 ci saranno 132 pensioni ogni 100 attivi (vedi Tabella 1).
Sull’età pensionabile le cose non vanno davvero meglio: la cosiddetta pensione di anzianità resta l’anomalia più evidente dell’intero sistema, anche facendo un raffronto col panorama internazionale. Si stima che le pensioni di vecchiaia non superino il 60% delle pensioni anzianità. Nel 1997 ben il 34,4% dei pensionati avevano un’età compresa tra i 40 e i 65 anni e il 3% risultava ancora più giovane (si tratta di circa 490mila persone). Le pensioni di anzianità nel settore pubblico, aggiornate al 31 dicembre 1996, erano più di un milione e mezzo (oltre l’87% del totale delle pensioni dirette) per una spesa complessiva di 43mila miliardi e mezzo. Nel settore privato, aggiornate al gennaio 1997, le pensioni di anzianità risultavano 1 milione 771mila, per una spesa superiore ai 39mila miliardi. Per non parlare delle pensioni-baby del pubblico impiego (in parte dovute alla crisi economica che ha reso necessari i prepensionamenti) – maturate con solo 20 anni di contributi (compresi i contributi figurativi) o addirittura 15 anni per le donne con figli – che sono più di 250mila, corrispondenti a un onere di quasi 5mila miliardi.
Il provvedimento Dini?
A regime solo nel 2030 La riforma Dini, per la verità, i binari giusti li aveva individuati, stabilendo il passaggio da un sistema retributivo (basato sulla media degli ultimi 10 anni di salario) ad uno contributivo (basato sugli effettivi contributi versati nell’intero arco della vita lavorativa) – nonostante la legge coinvolga solo i lavoratori con meno di 18 anni di anzianità (una quota tra il 72% e il 94% dei lavoratori dipendenti e tra il 46% e 59% di quelli autonomi), mentre per tutti gli altri rimangono le vecchie regole. Il problema principale sono i tempi di transizione, che porteranno la riforma a pieno regime soltanto intorno al 2030. Ma anche l’introduzione delle pensioni integrative – nei programmi il secondo pilastro previdenziale – non si è di fatto ancora compiuta: a tutt’oggi i Fondi pensione stentano a decollare (vedi Tabella 2). Del resto si tratta di uno strumento con potenzialità enormi, ma che richiede condizioni sostenibili per funzionare: la previdenza complementare non è certo compatibile con livelli di contribuzione obbligatoria già elevati (come quelli previsti dal nostro ordinamento, con una aliquota di computo per il lavoro dipendente del 33% e una ridotta deducibilità fiscale) e deve poi garantire una rendita adeguata (quella attuale è di circa il 3%). Altri sprechi arrivano da una gestione poco attenta del recupero dei “crediti non riscossi” da parte dell’Inps. Secondo le stime della Commissione di Vigilanza, i crediti recuperati sono stati il 7,25% del totale nel 1994, il 5,96% nel 1995, il 4,68 nel 1996 e solo il 3,42 nel 1997. Intanto, a fronte di questi dati, nella Finanziaria 1999 è previsto un recupero di 5.300 miliardi di lire di crediti realizzato trasferendo alle banche 8mila miliardi di crediti Inps, quando nulla assicura un esito positivo dell’esazione.
L’alternativa alla riforma?
Più pressione fiscale e più povertà
In conclusione, i dati parlano da soli: la spesa pensionistica continua a crescere e secondo le stime è destinata a triplicarsi da qui al 2050. Siamo già passati da 12mila miliardi di perdite l’anno per la fine degli anni Ottanta, ai 42mila miliardi di deficit del 1997 e l’ufficio statistiche dell’Ue, Eurostat, prevede per l’Italia un picco negli esborsi previdenziali, inserendola tra i paesi che più risentiranno dei trend demografici negativi. Nessuna inversione di tendenza, dunque, nonostante qualche piccolo miglioramento registrato nell’ultimo anno, come una lieve riduzione del saldo negativo dell’Inps e un parziale aumento della copertura della spesa da parte delle entrate contributive. Perché quando un problema è strutturale, cioè quando un sistema come quello previdenziale non è in grado di reggersi sulle sue gambe, nessun palliativo può reggere a lungo, né serve prendere tempo: il deficit delle pensioni, inevitabilmente, sottrarrà sempre più soldi alla fiscalità generale, assorbendo risorse che lo stato dovrebbe utilizzare per ben altri servizi. Ricordiamo, per inciso, che secondo le stime Ocse la pressione fiscale in Italia è aumentata dal 1995 ad oggi di ben 3 punti percentuali, passando dal 41,3 al 44,9, per un aumento complessivo di 72mila miliardi, pari ad una cifra pro-capite di 1 milione 285mila lire, mentre i dati Istat confermano una crescita del Pil che non ha superato l’1,5% (a fronte delle previsioni ottimistiche del D.p.e.f.). Nello stesso periodo è aumentato anche il numero delle famiglie povere (povertà relativa) soprattutto del ceto medio, che sono ormai l’11,8% della popolazione (vedi Tempi, n. 28). Il quadro non concede molto all’ottimismo: se davvero si vuole “eliminare l’iniquità nel finanziamento sociale” il problema pensionistico va affrontato a viso aperto, accettando la sfida di riforme reali, senza perdere altro tempo.
A prolungare un’apnea si può rischiare la morte per annegamento.