
La Cina vuole più figli ma continua a punire le famiglie con multe e aborti forzati

Nel 2018 il tasso di natalità della Cina è stato il più basso dai tempi della fondazione della Repubblica popolare 70 anni fa. Se nel 2017 erano nati 17,23 milioni di bambini, l’anno scorso appena 15,23 milioni. Oggi, secondo le statistiche ufficiali, il tasso di natalità è di circa 1,5 figli per donna, ma in realtà, secondo il ricercatore indipendente dell’Università del Wisconsin-Madison, Yi Fuxian, non supera 1,02 figli per donna.
Pechino teme che l’inverno demografico possa minare in modo irreversibile la crescita cinese e per questo, dopo avere allentato la legge sul figlio unico, sta pensando di cancellare ogni restrizione legata alla panificazione familiare. Nel frattempo, però, i governi locali continuano a punire chi trasgredisce la legge (che permette di avere al massimo due figli) attraverso multe astronomiche e aborti forzati.
LA MULTA DA 60 MILA YUAN
L’ultimo caso, riportato dall’Associated Press, riguarda una famiglia dello Shandong costretta a pagare una multa di 64.626 yuan (8.500 euro) per la nascita del terzo figlio. Nello Shandong lo stipendio minimo mensile è di 1.910 yuan al mese. Il conto in banca della famiglia, impossibilitata a pagare, è stato congelato lo scorso mese. Wang Baohua ha dichiarato di non potere più accedere ai suoi risparmi, che ammontano a 22,957 yuan (3.000 euro). «Non ho la minima idea di che cosa faremo adesso», ha dichiarato ai media locali.
I funzionari locali hanno dichiarato ai media di avere semplicemente applicato la legge. Ma secondo l’Ap, le multe sono frequenti perché costituiscono un tesoretto indispensabile ai governi provinciali per pagare i salari e ridurre il debito accumulato negli anni.
«MI HANNO STRAPPATO MIO FIGLIO DAL VENTRE»
Nonostante siano meno frequenti rispetto al passato, il partito comunista continua a portare avanti anche la pratica degli aborti forzati. L’ultimo caso che ha fatto scalpore è quello di v, donna di etnia kazaka nata in Cina, nello Xinjiang, e madre di due figli. Nell’ottobre del 2017, come un altro milione di musulmani, la donna è stata incarcerata in uno dei tanti centri di rieducazione attraverso il lavoro. Il partito comunista ha riaperto i centri per “curare” i musulmani, accusati a priori di essere estremisti e poco fedeli al regime.
Mogdin era incinta del suo terzo figlio e i funzionari le hanno ordinato di abortire. Dopo essersi rifiutata, i membri del partito l’hanno minacciata, assicurando che avrebbero punito altri componenti della sua famiglia per la sua disobbedienza. Così l’hanno costretta a firmare un documento secondo il quale «abortire è stata una mia scelta. Ho firmato perché non avevo altra scelta. Mi hanno strappato il mio bambino dal ventre al quinto mese».
Dopo essere stata incarcerata per sei mesi, la donna ha fatto ritorno in Kazakistan dal marito, dove ha rilasciato un’intervista a Radio Free Europe. «Prima di lasciarmi andare mi hanno detto: “Non parlare con i giornalisti. Non dire niente sull’esistenza dei campi di prigionia. Di’ che non esistono i campi e che la vita in Xinjiang è uguale a prima”».
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