Che cos’ha di tanto speciale la preghiera dei cristiani

Di Valerio Pece
14 Gennaio 2024
Il libro di don Paolo Prosperi, inesauribile miniera di fascinazioni teologiche, fa capire bene l’assoluta necessità di un dialogo d’amore (e di lotta) tra l’uomo e Dio
Eugène Delacroix, Lotta di Giacobbe con l’angelo (particolare), 1853-1861, chiesa di Saint Sulpice, Parigi
Eugène Delacroix, Lotta di Giacobbe con l’angelo (particolare), 1853-1861, chiesa di Saint Sulpice, Parigi

Tema centrale del Canto della vita, l’ultima ratzingeriana opera di Paolo Prosperi edita da Cantagalli, è il dialogo tra l’uomo e Dio, cioè quella preghiera che il sacerdote della Fraternità San Carlo chiama di volta in volta «dama», «madonna preghiera», «canto della vita». La motivazione è già nell’introduzione: «La convinzione che di poche cose il cristiano d’oggi abbia tanto bisogno, quanto d’essere aiutato a scoprire la bellezza e la ricchezza di quel meraviglioso “multi-verso” che è la preghiera».

Dato che «l’estasi, così come il piacere spirituale […] non sono fenomeni esclusivamente cristiani», cosa distingue la preghiera del cristiano da ogni altra ricerca interiore di Dio? Alla domanda con cui il libro si apre, l’autore risponde con la chiarezza propria dell’ortodossia cattolica: «La preghiera cristiana è in radice trinitaria, poiché pregare significa per il cristiano prima d’ogni altra cosa […] avere accesso al dialogo d’amore che il Figlio ha con il Padre nello Spirito Santo».

Il dono dei doni

Copertina di Il canto della vita, libro di Paolo ProsperiPer Prosperi «il dono dei doni» è nient’altro che questo: «Il potere di gridare Abbà Padre […] con la confidenza che gli viene dal sapere che il Cristo abita in lui». Ma alla prima domanda ne segue subito un’altra, oggi più urgente: quale rapporto sussiste tra la preghiera cristiana e la nostra vita? La parola chiave di una risposta che occupa molta della prima parte del libro è «trasfigurazione», nelle sue declinazioni di «assunzione», «purificazione», «compimento» della storia come anche di tutta la realtà creata.

È proprio questo insistito aggancio al creato (il libro pullula di animali, vegetali, minerali, e di quella che l’autore chiama «zoologia simbolica») a lasciar intravedere la pretesa latente dell’opera: oltrepassare una dimensione classicamente teologica per far breccia anche in chi è lontano dalla fede ma è ancora disposto a guardarsi dentro. Va in questa direzione, esempio tra i tanti, lo spingersi a individuare un’apertura al trascendente anche in quei movimenti ecologisti che seppur «ideologicamente pilotati» mostrano come «l’uomo d’oggi non smette d’essere ferito al cuore dalla bellezza del creato, di percepirne oscuramente il canto […] pur non sapendo dare un nome a questo fascino».

L’ora della morte e della gloria

Se allora dovessimo scendere per un attimo da questa giostra ragionata di direttrici teologiche e citazioni (le risposte dell’autore si alimentano degli scritti dei Padri della Chiesa come di molto cinema e letteratura), lo faremmo nei pressi di quel boschetto di Cabin Jones, attiguo a casa Bethesda, nel Maryland, dove «molte delle idee contenute in questo libro sono germinate». A metà del suo Canto della vita Paolo Prosperi racconta di una precisa domenica del novembre 2015, mentre un vento pungente «feriva la faccia e rendeva lo sgranarsi delle Ave Marie sulle labbra come più cosciente».

In quel bosco, in mezzo agli alberi ormai quasi totalmente nudi, l’autore contempla lo svettare dei due o tre ancora vestiti di foglie rosse e dorate (il possente acero della copertina del libro rimanda lì). Un sussulto lascerà spazio alla commozione. «Poi, di colpo, capii […]: come gli aceri mai risplendono più belli e gloriosi che nel momento del loro spogliarsi e morire, così il Signore, donandosi in sacrificio sull’albero della croce, ha trasformato l’ora della sua morte – che di per sé sarebbe l’ora più triste, come triste è vedere il bosco d’autunno avvizzire e lasciar posto all’inverno – nell’ora della massima gloria. Può essere un caso che tanto l’albero quanto il sole mai sono tanto belli quanto nell’ora del loro “morire”, per poi “risorgere”?».

Non solo lieto fine, ma anche la conquista

La seconda parte del libro si compone di due meditazioni. La seconda, più snella, è sul tema della penitenza, quel «processo di redenzione del cuore» dall’alchimia paradossale, dato che «il frutto di questo “libero affliggersi” è la gioia». Qui, dopo essersi soffermato sul Salmo 51, sui due frutti della compunzione – il dono delle lacrime e la memoria della misericordia di Dio – Prosperi individua nella sincerità la «virtù più decisiva»: «Tu vuoi la sincerità del cuore/ e nell’intimo mi insegni la sapienza» (Sal 50,8). E all’obiezione della sua inutilità (se Dio conosce il mio cuore meglio di me che bisogno ha della mia sincerità?) con inedita nettezza l’autore afferma che «il Signore non ne ha bisogno per conoscerti. Ma ne ha bisogno per liberarti». Per sommo rispetto della libertà donata all’uomo «Egli ha deciso di non investire col Suo sguardo di fuoco se non quel che di te gli metti davanti».

La prima meditazione dell’opera, più articolata, analizza invece la preghiera nella sua dimensione guerresca, epica; il suo essere lotta. Qui l’autore risponde alla domanda, ancora una volta scomoda, sul perché la preghiera sia anche fatica e sforzo. Attraverso pagine appassionanti, che spaziano da quei «mostri marini» che la Scrittura arriva a beatificare («pensieri malati, sensi di colpa, dolorosi ricordi censurati, paure e brame irrazionali») alle “sante” allucinazioni di John Nash, genio matematico raccontato in A Beautiful Mind, l’autore arriva alla prima di una serie di conclusioni concentriche: la preghiera cristiana è lotta «perché la vita cristiana è dramma d’amore, dialogo tra persone irriducibili l’una all’altra». Per l’autore è l’uomo stesso che «trova corrispondente che sia così». Come per Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, «noi non vogliamo solo il lieto fine. Vogliamo anche il travaglio e l’avventura della conquista. Vogliamo che l’amante sia disposto a lottare, a soffrire, persino a cambiare per fare sua l’amata».

La benedizione di un’anca sciancata

Ma perché è così? Prosperi spinge sempre avanti il boccino della sua analisi e regala più piste interpretative. Una è nascosta nel fatto che la lotta di Giacobbe con l’angelo di Dio sul fiume Yabboq trova pace solo nella ferita all’anca: «L’anca sciancata in realtà è parte della benedizione […] poiché la benedizione consiste proprio […] nel sapere di non poter più camminare confidando sulla propria forza, sulla forza delle proprie gambe, nel saper cioè di esser nulla, senza il Signore». E poi, «se il Signore a volte recalcitra, è perché anche a lui piace essere vinto», come da sua madre alle nozze di Cana. Ma per l’autore si può entrare in questa “castità” nei confronti di Dio solo attraverso un’iniziazione, un processo doloroso, che è, appunto, lotta.

Il canto della vita può essere letto “in abito da sera”, seguendo cioè il più scrupolosamente possibile la sua logica interna (è questo, va da sé, il modo migliore per tornare a cantare alla vita, o almeno provarci), ma anche “in déshabillé”, volando fior da fiore tra le infinite fascinazioni teologiche e letterarie di cui il libro è sapidamente intessuto (il desiderio di schiarirsi la voce sarà comunque garantito).

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