Era novembre. Alla guida della sua vecchia Citroën la signora A. tornava a Milano dalla campagna di Cremona, nella notte fonda. Non conoscendo la Bassa si era affidata al navigatore, che ora con la sua voce metallica la conduceva per certe vie minori, strette e irregolari, che erano, forse, la strada più breve; ma si inoltravano in una campagna sempre più disabitata e, in quella notte senza luna, completamente buia. La signora procedeva speditamente, in una cieca fiducia nel navigatore; cosa che non le impediva di guardarsi attorno e notare con stupore quale distanza separava le rare cascine, e come, negli ampi vuoti fra l’una e l’altra, la notte si faceva assoluta. Non come lungo una strada statale, dove case e fabbricati e luci si susseguono. No, la notte padana era il buio più pesto che A. ricordasse d’avere mai visto; il che le incuteva un senso di religioso timore per quella gran terra piana – così regale, quando era libera dalle case degli uomini.
La Citroën procedeva nel ronfare pigro del motore diesel, affidabile come sempre. Spesso la signora, professionista, quarantenne, abituata a viaggiare da sola e di notte, accendeva con un tocco nervoso delle lunghe dita sul volante i fari abbaglianti, e quelli disegnavano al fondo delle curve sagome di alberi scheletriti. Qui e là si profilava la mole oscura di una casa con appena una o due finestre fiocamente illuminate; e subito la strada ripiombava nel buio. Quanto nera è la notte, in campagna, si diceva A. meravigliata: ansiosa di scorgere le luci del casello, e tuttavia affascinata da quella pozza di oscurità in cui le pareva di affondare, come in un mare. In realtà, disse da dentro di lei una voce provocatoria, non ti dispiacerebbe che un guasto ti costringesse a fermarti davanti a una di queste case isolate, e a scendere, e a suonare al campanello: per scoprire chi vive dietro a quella finestra debolmente illuminata, dentro a questa grande notte. A. sorrise di quella insinuazione, schiacciando un po’ di più l’acceleratore della Citroën, che rispose con un benigno ruggito. «Questa macchina non mi ha mai dato un problema», si confortò.
Ma non fece che un paio di chilometri ancora e – incredibile, neanche l’auto avesse compreso il suo recondito pensiero – sul cruscotto si accese una spia gialla, il motore ebbe un fremito e la macchina perse potenza; arrivando, spinta dall’abbrivio, proprio davanti al cancello di un casolare con appunto una sola finestra illuminata al pianterreno, e un’altra, più piccola, al piano superiore. Una tozza ampia casa di campagna con una stalla abbandonata accanto, e, davanti, un piccolo giardino, dove in quella notte d’autunno, rischiarate appena da un anemico lampione, si aprivano le ultime rose di novembre, illividite dal freddo.
A. provò ripetutamente a rimettere in moto, sempre più nervosa: niente, il motore si accendeva, singhiozzava e si spegneva. Pensò di chiamare un carro attrezzi. Disgraziatamente, scoprì con sgomento, il cellulare non aveva campo. Fu così che, scesa dall’auto, spinse un’anta socchiusa del cancello, che, proprio come aveva immaginato, cigolò acuta. Lo scricchiolio dei suoi passi sulla ghiaia del cortile le parve rumorosissimo, nel silenzio profondo. L’aria fredda pungeva attraverso il suo cappotto leggero. Non poteva fare altro: suonò alla porta della cascina.
Il campanello echeggiò, breve e acido. Dalla casa, nessun rumore. Già un po’ angosciata, A. suonò di nuovo. Questa volta avvertì come un lento ciabattio su una scala. Poi un “chi è?” pronunciato da una voce di vecchia, inquieta, eppure gentile. «Mi perdoni signora, mi si è fermata la macchina, potrebbe lasciarmi fare una telefonata?», quasi gridò A. con la bocca vicinissima alla porta, per farsi meglio sentire. Silenzio, ancora. Poi uno sferragliare di catenaccio e la porta si socchiuse sul volto di una donnina bassa, canuta, secca; guardinga negli occhi, chiari come la nebbia che spesso doveva sommergere quei campi. Il vedere che il visitatore era una donna però rassicurò la padrona; che subito, rincuorata, aprì completamente l’uscio: «Venga, venga dentro, che fa freddo», disse, con una parlata padana declinata in una voce sottile, come disseccata dagli anni.
A. si inoltrò in una cucina grande, con una sola luce accesa su una lunga tavola coperta da una sbiadita tovaglia a quadretti bianchi e rossi. Accanto, una grossa stufa borbottava emanando un piacevole calore. C’era un grande camino, ma il fuoco era spento. La cuccia di un gatto era vuota. Colpì le narici di A. un odore di polvere, acre, come lo aveva sentito alle volte in certi vecchi solai pieni di cose da decenni abbandonate. La casa dava l’impressione di essere stata un tempo abitata da una numerosa famiglia, ma che ora tutti se ne fossero andati, o fossero morti. Alla luce della lampada le due donne si considerarono reciprocamente. La padrona portava un grembiule a fiori e ciabatte di feltro sulle calze di lana. Dimostrava forse ottant’anni, ma lo sguardo era attento, benché con qualcosa al fondo di gentilmente smarrito. Il naso aguzzo e i lineamenti fini le davano un’aria da delicata strega, per l’età però, pensò A., certo ritiratasi dalla attività. Ciò che per parte sua la donna vide in faccia alla signora A. dovette rassicurarla, perché la invitò a sedersi vicino alla stufa, per scaldarsi. «Volevo solo chiederle di telefonare a un carro attrezzi, l’auto si è bloccata», disse A., esitando a sedersi, e come intimorita da quella stanza in cui il tempo pareva essersi fermato da molti anni. Ogni cosa era in ordine, ma tutto così vecchio: le pentole, la scatola da biscotti di latta sulle credenza, una bilancia per la farina, tutto era di una foggia che si vede ormai solo sui banchi dei robivecchi. Anche il telefono, nero e appeso a un muro, doveva avere più di cinquant’anni. La padrona seguì lo sguardo di A., che gli si era posato sopra speranzoso: «Mi dispiace, la linea è stata tagliata. Costava troppo, e mia sorella dice che non potevamo permettercelo».
«Eravamo una grande famiglia»
Per lo sconforto A. si lasció andare pesantemente sulla sedia che la donna le aveva offerto. L’iPhone in tasca, l’iPad in mano, tutto in quel buco nero di campagna era muto e inutile. E adesso? si domandò. Ma la vecchia aveva già aperto il rubinetto del lavello e stava riempiendo d’acqua un vetusto bollitore di smalto. «Non si preoccupi, intanto le faccio un bel caffè d’orzo bollente, poi le trovo una sistemazione per la notte. Vediamo… Di letti c’è solo il mio e quello di mia sorella, le altre stanze sono chiuse da anni, e poi non sono riscaldate… Però può riposare qui», e indicò accanto alla stufa una grossa poltrona coperta da un tessuto a rose, liso da decenni di lavaggi. Anche le molle della poltrona cigoleranno, come i cardini del cancello, fu certa fra sé A. Ma ringraziò e pensò che era ancora stata fortunata, a bloccarsi proprio davanti a quella casa ospitale.
Il caffè d’orzo fumante nella scodella, il calore della stanza che si coagula sui vetri delle finestre in un alone di vapore. La vecchia Celestina, così si chiama, è rimasta in piedi come chi non è abituato a riposare. A. beve e si scalda le mani attorno alla tazza, e gira lo sguardo attorno, sulla cucina. «Vive sola qui?», domanda, quasi a interrompere la densità del silenzio. «Siamo rimaste mia sorella e io», risponde la donna. «Una volta, eravamo in tanti. Otto fratelli, e due sorelle: la Nives e io». Sorride, quasi rivedesse la tavola della domenica, e i fratelli seduti attorno, lavati e pettinati. «Da mangiare, ce n’era per tutti. Questa, è terra buona, sa? Perché sotto – e con un dito indica il pavimento di piastrelle ingrigite – c’è l’acqua». «L’acqua?», chiede perplessa A. «Sì, proprio qui sotto c’è una sorgiva. Quando il fiume è in piena l’acqua viene su da sottoterra, in cantina. Una volta, a una piena, siamo dovuti scappare, mettere quel che potevamo sui carri, e fuggire con le mucche e i maiali. E c’era la Angela, la moglie di un mio fratello, che era incinta, e le son venute le doglie. Cara mia, sapesse, mia sorella Nives e io, a improvvisarci levatrici su un carro, al freddo, sotto la pioggia».
Un’auto passa sulla strada. Nel silenzio il rombo del motore resta come a lungo sospeso, fino a svanire.
«E poi?», chiede A. accorgendosi di pronunciare la frase dei bambini che vogliono che si continui una storia. «E poi, è scoppiata la guerra. I miei fratelli sono stati chiamati alle armi. Sono rimasti qui Aldo, che già era troppo vecchio per il fronte, e Martino, che è nato sciancato. E Nives e io, naturalmente. Il papà era già morto, la mamma invece era ancora in gamba, e quanti rosari abbiamo detto, la sera, perché i fratelli tornassero…». «E sono poi tornati?», chiese A., con una punta di scetticismo. «La vecchia apre con un sorriso una mano, e conta sulle dita i destini dei fratelli: «Uno, disperso in Russia. Un altro, caduto in Grecia. Uno, Mario, è tornato senza una mano. E Igino e Carlo e Ignazio, che erano salvi e in salute, appena finita la guerra sono partiti per l’America. La mamma, povera donna, è morta poco dopo. Siamo rimasti in cinque: Aldo quasi vecchio, Martino sciancato, Mario senza una mano, la Nives e io. La Nives era ancora giovane, e bella, sapesse quanto bella, coi capelli di rame, e la pelle bianchissima, da signora. Mai ha accettato un corteggiatore, e ne aveva tanti, sa? Mai ha voluto sposarsi. E così è rimasta sola come me – e qui la vecchia sorride – che sono nata brutta».
Dopo la guerra mondiale
Un gatto rosso fulvo entra senza fare rumore e si ferma davanti al camino, a studiare la sconosciuta. Nella penombra i suoi occhi brillano arcani luccichii d’oro. Il gatto decide che può fidarsi di A. e le si accoccola in braccio, facendo le fusa. «E allora qui in cascina facevamo andare avanti tutto quanto noi tre, perchè i fratelli invalidi se ne stavano tutto il santo giorno all’osteria, a bere. Sono morti, poveretti, di tutto il vino che han bevuto…», conclude la vecchia, ma con un tono di pietà. «E adesso?», domanda A., di nuovo. «Adesso, siamo vecchie!», ride Celestina. L’orologio sul muro segna la mezzanotte e mezza; ma anche quello, pensa A., potrebbe essere fermo da cent’anni. Osserva le mani della padrona di casa, rugose, vizze. Prova a immaginarla da giovane. Niente, non ci riesce.
«Adesso – continua – la Nives mi sveglia che è ancora buio. Scendo a fare il caffè. Poi glielo porto su in camera, lei stenta ad alzarsi, e anche di giorno ormai resta quasi sempre in poltrona. E poi, niente: la casa da pulire, l’orto, le galline. Nives – sorride – dalla sua poltrona mi dice cosa devo fare, e sapesse che carattere, e come si arrabbia se dimentico qualcosa… La terra, l’abbiamo venduta tanto tempo fa. Abbiamo – ride, e abbassa la voce come se qualcuno potesse sentirla, mentre una luce furba le passa negli occhi – ancora i soldi dentro il materasso, sa? Nives non si fida delle banche… La domenica, fino a un anno fa, il sacrestano del paese vicino veniva a prenderci e a portarci a Messa. Poi, una domenica lo abbiamo aspettato, ma non è più venuto. Nives dice che siamo tanto vecchie, che anche Dio si è scordato di noi. Il dottore passa, qualche volta, un dottorino giovane che pare un ragazzino. Bravo però, gentile, chiede sempre della Nives… Ma lei di medici non vuole saperne: “Guai a te se me lo metti tra i piedi!”, dice».
Da lontano, nella notte, l’eco di un tocco di campana. «Abbiamo fatto tardi, non è vero?», dice la vecchia, e ora in fretta sciacqua la tazza e sale le scale, e se ne torna giù ciabattando con una vecchia coperta di lana ruvida tra le braccia. «Dorme già, sua sorella?», chiede A. «Oh sì che dorme, dorme come una bambina, anzi devo andare a metterle un’altra coperta, ché ormai la notte è fredda. Dorme, poi la mattina all’alba si sveglia e comanda come una principessa! Buona notte, signora, si riposi».
L’oscurità e il nulla
Passi sulle scale e poi, di sopra, un confuso e lieve eco di voci, e cigolii di vecchi assiti calpestati. A. spegne la luce e si rannicchia sulla poltrona a fiori. Appena un’aura di luce rossastra da fuori, dal pallido solitario lampione. L’iPhone recita ostinato: “Nessun servizio”. Ad A. si chiudono gli occhi. I fari di un’auto di passaggio descrivono un fugace arco giallo sulla parete. Un fruscio sottile e veloce la sveglia di nuovo. Topi? Poi anche il fruscio tace, e A. si addormenta.
Si sveglia quando il cielo schiarisce. Disorientata, non capisce dove si trova. Poi, si ricorda: la macchina in panne, la vecchia… Si alza, si lava la faccia all’acqua del lavello della cucina, così gelida che pare una lama sulla pelle. Vorrebbe un caffè, ma non osa farselo da sola. Si guarda attorno, si affaccia alla scala che sale verso le camere da letto. Chiama: «Signora?». Niente, nessun rumore. Allora si mette il cappotto sulle spalle, tira il catenaccio della porta e traversa il cortile. Sul parabrezza dell’auto c’è uno strato di ghiaccio. Senza speranza apre la portiera, si mette al volante, gira la chiave. A. sobbalza, al ruggito pieno e pronto del motore. Sbalorditivo: la vecchia Citroën non è mai stata così bene. E il telefono, scopre A., ora ha campo. A. torna in fretta in casa, ansiosa di scrollarsi di dosso la polvere e il silenzio della vecchia cascina che, alla luce del giorno, non le appare più misteriosa ma solo abbandonata. «Celestina? Celestina!», chiama, chiama, e niente, solo l’eco della sua voce per le stanze vuote.
Apre la porta allora di un andito da cui una scala scende alla cantina, chiama di nuovo: soltanto ancora la sua voce in un eco strano, ovattato, e i gradini che sprofondano nella oscurità fitta, come nel nulla. A. rabbrividisce al fiato di umidità che sale da là sotto, quasi che il buio covasse un misterioso animale. Poi torna all’altra scala e alza il viso verso il piano superiore, e incerta calca i gradini; si affaccia su un corridoio stretto dove si allineano numerose porte. Non si sente, da dietro, alcun suono. Esitante A. le socchiude piano, una ad una. Una dopo l’altra le stanze si rivelano abbandonate da anni, vecchi mobili alla rinfusa e ragnatele che pendono dal soffitto in un acre odore di chiuso. Anche dal lato destro le ultime porte si aprono su stanze abbandonate. Poi, finalmente, il tepore di una stufa, e due stanze comunicanti, pulite, ciascuna con un vecchio letto e un cassettone con lo specchio e le tendine alle finestre. «Celestina?», chiama A. Lo sguardo le cade sul comodino della seconda stanza, dove su un vassoio sta una tazza di caffè e del pane. A. tocca la tazza, è fredda. Il pane è duro, il letto è intatto. Sul cassettone, un fascio di rose appassite. Sul muro un calendario ingiallito porta scritto: agosto 1979.
Un tonfo al cuore
Ora A. scende la scale di fretta, inquieta come se fosse caduta dentro a un sortilegio. Il grosso muso della sua auto in cortile la rassicura, come una prova della concretezza della realtà. Ma dove sarà la padrona? Nell’orto, certo, come mai non ci ha pensato prima? Certamente deve essere nell’orto, si dice, e si avventura da una porta sul retro, i tacchi sottili che affondano nel fango. Finalmente scorge Celestina, curva sulla terra grassa e nera. «Signora!», le grida sollevata, ridendo fra sé dei suoi sciocchi pensieri (aveva perfino immaginato che…) Quella alza la testa, sorride, sfila le mani dai guanti da lavoro. A. la ringrazia della ospitalità, «grazie di tutto, ora devo proprio andare E mi saluti sua sorella! – aggiunge – Deve essere uscita, vero?». «Ma no, Nives non esce più da anni, poveretta, è malata», fa Celestina accompagnando a piccoli passi A. verso il cancello.
Allora con un tonfo al cuore A. rivede quella camera polverosa e muta, il caffè sul comodino, il calendario di trent’anni prima. Non osa dire nulla. Trema all’idea che uno sguardo, un rumore, buchino la campana di vetro in cui la vecchia si è rinchiusa – pur di non sapersi sola. La saluta, e negli occhi di lei A. si perde ancora in quella vaga nebbia gentile. A. mette in moto, e molto lentamente gira il volante dell’auto – le ruote fanno scricchiolare la ghiaia del cortile. Adagio, come per non svegliare qualcuno che dorme, supera la siepe di lauro e le rose livide di freddo, e se ne va.