Burkina Faso. «Così i terroristi puntano a creare uno Stato islamico»

Di Leone Grotti
26 Febbraio 2020
Intervista a monsignor Debernardi, vescovo emerito di Pinerolo, dal 2017 nel paese africano: «Vogliono una guerra religiosa ed etnica. Ammiro i preti eroici che restano tra la gente»
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«Il sogno dei terroristi è conquistare il Nord del Burkina Faso per creare uno Stato islamico che parta dall’Oceano, dalla Mauritania, e arrivi fino al Sudan». Solo così, racconta a tempi.it monsignor Pier Giorgio Debernardi, vescovo emerito di Pinerolo, si può spiegare l’aumento esponenziale di attacchi nel paese dell’Africa occidentale, specialmente nel nord: «Ne abbiamo avuti 3 nel 2015, 12 nel 2016, 29 nel 2017, 137 nel 2018, più di 250 nel 2019 e quest’anno siamo solo a febbraio, ma già ne abbiamo subiti decine». Parla al plurale, Debernardi, 79 anni, che in Burkina Faso ormai è di famiglia.

A partire da una cooperazione cominciata nel 2002 tra i paesi dell’area del Sahel e la Regione Piemonte, anche la diocesi di Pinerolo ha realizzato a Dori, nel nord del paese, programmi di scolarizzazione e alfabetizzazione. Dopo essere andato in pensione, il vescovo si è messo al servizio del Burkina Faso, trasferendosi a Dori. La minaccia terroristica l’ha costretto però, un anno e mezzo fa, a spostarsi nella capitale Ouagadougou, dove la sicurezza è maggiore.

Proprio nella diocesi di Dori, la più colpita dal terrorismo, il 16 febbraio i terroristi islamici hanno fatto irruzione nel villaggio di Pansi, attaccando una chiesa protestante e uccidendo 24 persone, tra le quali un catechista. L’anno scorso i fondamentalisti hanno fatto 1.800 vittime e a giudicare dai primi due mesi del 2020, la situazione sta ulteriormente peggiorando. I cristiani sono nel mirino dei jihadisti, ma non sono gli unici a subire violenze.

Monsignor Debernardi, cosa sta succedendo in Burkina Faso?
Gli attentati stanno aumentando in misura esponenziale. I terroristi vogliono mettere a soqquadro lo Stato e colpiscono gli uffici pubblici, l’esercito, le istituzioni civili, quelle religiose. Tutti sono un bersaglio, ma io sono particolarmente preoccupato per le scuole.

Perché?
Non c’è modo migliore di destabilizzare un paese che partire dai più giovani. Qui i docenti vengono uccisi, tanti si rifiutano di insegnare e le scuole chiudono i battenti: chi si azzarda a recarsi in classe con questo pericolo? Proprio in questi giorni il ministro dell’Istruzione ha detto che 2.040 scuole sono state chiuse, soprattutto nel Nord. Una catastrofe.

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Quali sono le principali emergenze?
A parte l’emergenza educativa, come detto, c’è quella degli sfollati. Prima di attaccare un villaggio i terroristi mandano messaggi minatori alla popolazione, intimando di andarsene. La maggior parte scappa, chi resta deve assistere ad attacchi nelle chiese e nei mercati. Incendiano tutto. Mercoledì scorso mi sono recato a Kaya, una città a metà strada tra Dori e la capitale. Ho visto la Caritas presa d’assalto dagli sfollati, che non hanno da mangiare. A Kaya vivevano circa 70 mila persone, oggi la città deve occuparsi anche di 400 mila sfollati. A non avere più una casa dove vivere, sono oltre 600 mila persone.

Qual è la strategia dei terroristi, secondo lei?
A quanto posso vedere e capire, hanno tre mezzi per raggiungere il loro scopo, che è istituire uno Stato islamico. Il primo è destabilizzare lo Stato: non dimentichiamo che in Burkina Faso il 22 novembre sono previste le elezioni, ma potrebbero anche essere rinviate. Attaccando i mercati, inoltre, bloccano l’economia delle città. Il secondo è fomentare una guerra religiosa tra cristiani e musulmani, che qui hanno sempre avuto una tradizione esemplare di convivenza. E ci tengo a sottolineare che non sono colpite solo le chiese, ma anche le moschee.

Il terzo mezzo?
Fomentare una guerra etnica, che sarebbe ancora più grave di quella religiosa. A inizio anno, a Yirgou, i terroristi hanno ucciso sei persone di etnia Mossi. I Mossi hanno accusato i Peul (prevalentemente musulmani, ndr) di aver dato ospitalità ai terroristi e così tra di loro è nata una guerra etnica fratricida dove sono morte oltre 240 persone.

La diocesi di Dori si è svuotata a causa delle violenze?
La diocesi copre un territorio molto vasto dove i cattolici sono circa il 2 per cento della popolazione. Le parrocchie sono 6, ma 3 sono state chiuse a causa degli assalti. Il parroco di Djibo, don Joel Yougbarè, durante un attacco l’anno scorso è stato rapito. Restare nella diocesi è molto pericoloso e ormai non ci sono che 20-22 preti.

Si può parlare di persecuzione?
Certo, la situazione è davvero molto brutta e io ammiro molto quei preti, catechisti e pastori che pagano un prezzo durissimo pur di restare con la loro gente. Rischiano la vita ogni giorno e sono un bel segno di speranza. Io volevo mettermi al servizio di Dori e della diocesi, fare da nonno ai preti del Burkina Faso ma non è stato possibile. Spero però che la situazione cambi in futuro.

Non ha mai pensato di tornare in Italia?
Io non ho paura, nella capitale si vive bene, anche se qui tutto è possibile ovviamente. Però sono convinto che il Signore ci protegge sempre e poi non si può vivere nella paura. Detto questo, ammiro i preti che nonostante i ripetuti attacchi restano al Nord. E ammiro anche gli imam che fanno lo stesso.

@LeoneGrotti

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