Per Paolo Vites Bob Dylan è molto più di una grande passione. È, nel senso più autentico del termine, un avvenimento. È lui stesso a rievocarlo: «Non amavo particolarmente la musica rock. Fino a che una sera della primavera del ’76 una trasmissione musicale televisiva della Rai mandò un filmato di un musicista americano. Veniva presentato con grande enfasi. “Il tipo deve essere uno importante” pensai. Lo shock che seguì la visione e soprattutto l’ascolto di “quella” voce ha cambiato per sempre la mia vita». Non è un’esagerazione. È l’inizio di una scoperta che lo condurrà a fare del rock la sua professione (“critico musicale” si direbbe: ma è riduttivo, di uno per cui il lavoro fa tutt’uno con la vita). Dopo un quarto di secolo dedicato ad ascoltare dischi, a seguire concerti, a collezionare bootleg, a tirar mattino con qualcuno dei suoi session men per carpire qualcosa dei suoi segreti («ma com’è quando suona, sul palco?»), Vites dà oggi alle stampe un libro che è la summa della sua esperienza d’ascolto. Allinea uno per uno tutti gli album incisi dal menestrello del Minnesota, dal primo, sgangherato, allora pochissimo venduto “Bob Dylan” del 1962 a “Love and Theft”, uscito l’11 settembre del 2001, versi che la coincidenza con l’attacco alle Torri trasforma quasi in strani presagi («Il cielo è pieno di fuoco / il dolore scende giù come pioggia»). Li presenta, li commenta, ne racconta la storia, li offre all’ascolto, muovendo da una semplice, fondamentale osservazione: «la musica di Bob Dylan si è confrontata (e si confronta ancora) con il mistero. Puoi anche trovarti in disaccordo con essa: è successo nel ’65, quando ha attaccato la chitarra a un amplificatore; è successo ancora nel ’79, quando è diventato una specie di predicatore; succede ancora oggi. Ma è musica che pone domande, e questo è già abbastanza. Niente di più lontano da quanto siamo abituati ad ascoltare oggigiorno».
Paolo Vites, Dob Dylan 1962-2002. 40 anni di canzoni, 382 pp. Editori Riuniti, euro 18,00