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Quando Bersani, Chiti e D’Alema volevano la riforma dell’articolo 18. «I sindacati sono miopi»

Oggi attaccano Renzi, ma ieri dicevano le stesse cose. Piccola rassegna stampa per rinfrescare la memoria alla minoranza del Partito democratico

Chiara Rizzo
22/09/2014 - 16:28
Politica
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«Questo doppio regime nel lavoro non funziona più. E sono pronto alla battaglia con i sindacati. Perché, pure loro, si dimostrano miopi. E quando tutti i protetti andranno in pensione? Cosa rimane? Rimane il far west»: l’ultima dichiarazione del premier Matteo Renzi, a difesa del jobs act e della riforma dello statuto dei lavoratori con il contratto unico a tutele crescenti? Nient’affatto: la dichiarazione appartiene all’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani, oggi strenuo difensore della battaglia con i sindacati per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ma che, fino a qualche anno fa, era un insospettabile difensore di una riforma radicale del codice del lavoro. Oggi Bersani è in quella minoranza che in casa Pd minaccia il percorso di riforma immaginato da Renzi: semplificare la giungla attuale dei contratti, introducendo un contratto a tempo indeterminato per tutti, che nei primi tre anni (o due) potrebbe però non prevedere il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento per giusta causa (in virtù appunto dell’articolo 18), ma solo un indennizzo.

BERSANI: «I SINDACATI SI MOSTRANO MIOPI». Pietro Ichino, senatore di Scelta civica (ed ex deputato Pd), si è divertito a pubblicare una piccola rassegna stampa al vetriolo che rivela come la battaglia per l’articolo 18 dei vari Bersani, Massimo D’Alema e co., sia più probabilmente solo un fumoso tentativo di tornare al centro del dibattito mediatico, e in sella nel Partito democratico. Ecco dunque che si scopre che il 13 giugno 2009, in pieno governo Berlusconi, Bersani aveva tutt’altre idee da quelle odierne. E al Sole 24 ore dichiarava: «Ho un’idea del Paese che tiene insieme imprese e lavoro: e si fa con una riforma del welfare che arrivi a tutti. E con una riforma del mercato del lavoro che superi questo dualismo. Non va mica bene che c’è una parte di protetti e la metà che è senza tutele. Anche perché i “tutelati” stanno andando man mano in pensione e sul mercato ci resteranno solo gli altri». Al giornalista che incalzava, chiedendogli se gli piaceva la riforma proposta da Ichino e da Tito Boeri (cioè l’ossatura dell’odierno Jobs act di Renzi), Bersani spiegava: «Non è che mi vada bene al cento per cento. Ma la direzione è quella. Questo doppio regime nel lavoro non funziona più. E sono pronto alla battaglia con i sindacati. Perché, pure loro, si dimostrano miopi».

CHITI E IL DDL SUL LAVORO. Bersani non era solo. Oggi tra i leader della minoranza dem c’è Vannino Chiti: «Rivolgo un invito al presidente del Consiglio: sulla delega per il lavoro eviti forzature e diktat, procedendo invece a un confronto serio e ai necessari chiarimenti. Non può esservi una delega in bianco o densa di ambiguità. È senza fondamento e non accettabile per la sinistra rimettere in discussione ciò che resta dell’articolo 18» dice oggi. Una bella giravolta, rispetto a quanto lo stesso Chiti faceva nel 2009, quando è stato il terzo firmatario del disegno di legge sulla flexsecurity (i primi due firmatari sono stati gli estensori Pietro Ichino e Emma Bonino), che per la prima volta ha riproposto la riscrittura integrale dello statuto dei lavoratori e dell’articolo 18.

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QUANDO D’ALEMA VOLEVA «STRIGLIARE LA CGIL». Oggi il lider Massimo, D’Alema, si diletta ad organizzare cene con i dissidenti del partito. Sempre nel 2009, il 13 ottobre, il Foglio raccontava di come la pensasse completamente all’opposto di oggi: «Qualche settimana fa, alla presentazione del quaderno di ItalianiEuropei dedicato al lavoro, D’Alema ha appoggiato il contratto unico nella versione hard di Pietro Ichino che prevede l’eliminazione dell’articolo 18 nell’ambito del progetto per la transizione alla flexsecurity».  E anche nel sito del politico, massimodalema.it, c’è in effetti conferma diretta di quanto raccontava il quotidiano di Giuliano Ferrara. Sul sito è riportata una nota dell’agenzia Dire del 16 settembre 2009: «Massimo D’Alema striglia la Cgil: “Serve più coraggio”. L’affondo che punge di più viene da Massimo D’Alema, padrone di casa, in teoria più vicino alle ragioni del sindacato: “La parte del mondo del lavoro che noi siamo in grado di rappresentare è invecchiata”». E ancora, per il D’Alema 2009 «serve tuttavia “uno zoccolo di diritti universalmente riconosciuti: questa è la condizione perché l’articolazione non diventi una giungla”». Nota bene: la Cgil “miope” secondo D’Alema era quella guidata da Guglielmo Epifani, oggi uno dei suoi “bracci” armati nella ribellione della minoranza dem.

LA MISSIONE STUDIO DI DAMIANO. Persino il più esperto di politiche del lavoro nella minoranza dem, l’ex ministro Cesare Damiano, si è detto in passato entusiasta di un modello dove la mobilità del lavoro «non fa paura perché l’accesso a un altro impiego è garantito, anche grazie al ruolo attivo del sindacato nella gestione del sistema di orientamento e formazione». Così diceva infatti nel 2005 all’Unità, di ritorno da una “missione studio” in Danimarca, dove vige il sistema che Renzi vorrebbe attuare ora in Italia. Damiano all’epoca era incontenibile: «Un triangolo dorato, composto da Stato, dai sindacati e dai datori di lavoro ed è veramente un modello funzionante. L’entrata e uscita dal mondo del lavoro in Danimarca non è un problema perché esiste una forte protezione sociale».

Tags: articolo 18cgilchitid'alemaflexsecurityichinoJobs actMatteo RenziPdpier luigi bersanistatuto dei lavoratori
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