Anticipiamo un articolo tratto dal numero di Tempi in edicola da oggi (vai alla pagina degli abbonamenti) – Quando penso che risale all’edizione del 31 dicembre 1992 l’intimo convincimento del New York Times che Giulio Andreotti fosse un «mafioso», in anticipo di ben tre mesi sull’inizio della mattanza giudiziaria che si concluderà dieci anni dopo con l’assoluzione e il ritiro dalla politica del Divo Giulio. Quando penso che nella primavera del 1993, epoca in cui le procure procedevano alla rottamazione dei partiti, il direttore del settimanale Il Sabato ci inviò a Parigi a interrogare Alain Minc sulle “manine americane” che sembravano condurre le danze della “rivoluzione giudiziaria” italiana. Quando penso che Minc, all’epoca braccio destro di Carlo De Benedetti e non si sa se massone ma certamente analista molto finemente informato, ci spiegò bonario che «non esistono complotti, esistono solo interessi che si tengono. Quanto all’Italia, deve solo decidere se la frontiera dell’Europa passerà da Roma. O quella dell’Africa da Napoli. Riformate lo Stato, o tra vent’anni sarete morti». Quando penso che manovrando da Roma sono andati avanti per più di vent’anni a impedire la riforma dello Stato grazie a quel fantastico espediente di Stato nello Stato che è la magistratura politicizzata. Quando penso che per far fuori il riformista Bettino Craxi (e tutti i partiti della Prima Repubblica, tranne il Pci poi Pds poi Ds e via di mutazioni di facciata fino al Pd), hanno portato in politica i portaborse dei portaborse e selezionato infine quelli che con 50 click li eleggono senatori della Repubblica. Quando penso che per sbarrare la strada all’imprenditore fuori dagli schemi (e dagli «interessi che si tengono insieme») ci sono voluti tre presidenti della Repubblica (Scalfaro, Ciampi, Napolitano) e tre presidenti del Consiglio (Monti, Letta, Renzi) nominati dall’estero.
Quando ci penso capisco che il risultato di vent’anni persi così, a caccia del Caimano, in leggi anti produzione e in proclami sulla “Costituzione più bella del mondo”, non poteva succedere nient’altro che il nulla in tutte le salse. Infatti. Grillo sul palco e Assange al maxischermo. Mangiafuoco che «devono avere tutti paura». E lo spione che «ogni giornalista ha sulla coscienza dieci morti». Quando penso che, vent’anni fa, don Luigi Giussani previde tutto questo e disse alla Stampa, occhio, «una parte esigua di tutto il popolo si erige a maestro illuminato e a giudice di tutti. È il concetto caratteristico di qualsiasi tentativo rivoluzionario. Da questa pretesa deriva la sovrapposizione di una “classe” a tutto il popolo, l’esasperazione di un particolare che crea nel popolo l’immagine del magistrato come il “puro” per natura, come accadde tra i maestri catari e albigesi. È la fanatizzazione di un particolare… Ma l’esaltazione di un particolare fa dimenticare le regole; si annullano i diritti della persona e quasi ogni sentimento di pietà, assicurando una idolatria agli attori in scena. No. Tutto questo non annulla la necessità di indagare e punire i colpevoli…», però, «la situazione è grave per lo smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo, per cui il popolo stesso venga spinto a ricercare le cause reali del malessere e a salvarsi così dagli idoli. Questo smarrimento comporta una inevitabile, se non progettata, distruzione dello stato di benessere, che risulta così totalmente minato nella tranquillità del suo farsi».
Buon compleanno, Pres.
Quando penso che tutto quanto è stato avvertito da don Giussani si è verificato e perciò il profeta e il suo seguito sono stati passati per le armi. Quando penso che non voglio diventare francese perché, come dice quell’anarco-putiniano di Depardieu, «la Francia rischia di trasformarsi in una Disneyland per gli stranieri, abitata da imbecilli che fanno vino e formaggio puzzolente per i turisti. Di libertà non ce n’è più, la gente è manipolata». Quando penso che purtroppo stiamo diventando francesi grazie alla Disneyland di Renzi e grazie ai formaggiai della Casaleggio (quelli che traducono “presa della Bastiglia” con «apriremo il parlamento come una scatola di tonno»; quelli che stanno nel bunker di Assange a compulsare la blogosfera di cristallo; quelli che accendono i motori a palla e viaggiano a fari spenti nella notte per non andare da nessuna parte…). Ecco, quando penso a tutto questo, penso anche: meno male che Silvio c’è. C’è stato. E con i suoi ottant’anni sonanti, Silvio ci sarà ancora. Buon compleanno, Pres.
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