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Lo staff di Avsi ai confini e in Ucraina, «qui per chi fugge e per chi resta»

La «solidarietà impressionante» dei polacchi, l'infinita domanda: «E ora?». Da Chelm alla Romania, da Leopoli a Kharkiv, Avsi risponde a molto più che una emergenza. Intervista a Guido Calvi

Caterina Giojelli
14/03/2022 - 6:30
Esteri
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Il centro sportivo di Chełm, in Polonia, trasformato in un luogo di accoglienza per i rifugiati ucraini (foto dalla pagina Facebook di Avsi)
Il centro sportivo di Chełm, in Polonia, trasformato in un luogo di accoglienza per i rifugiati ucraini (foto dalla pagina Facebook di Avsi)

«Le scarpe, quanta strada avevano percorso quelle scarpe?». Un torrente di donne e bambini si trascinava esausto al di qua della frontiera, ai piedi scarpe indicibilmente sformate, consumate da una propria odissea nel fango o nella neve del nord del paese. Un popolo che andava rimesso in piedi dalle suole: ricorda di aver pensato questo Guido Calvi, coordinatore dell’emergenza di Avsi, appena raggiunta Chelm, il cantiere brulicante della carità al confine con l’Ucraina in guerra. Quello che non ricordava, invece, era di essersi imbattuto prima di allora in una risposta paragonabile a quella dei cittadini polacchi, corsi alla frontiera per dare ai fuggiaschi cibo, coperte, anche solo un po’ del loro tempo. «Una solidarietà impressionante», racconta a Tempi, «una città si era mobilitata ed erano tutti lì, a portare quello che potevano ai profughi».

Sono giorni che Calvi fa la spola tra Ucraina, Polonia, Romania: mentre lo chiamiamo sta visitando le strutture di accoglienza del partner storico di Avsi in Romania, l’associazione FDP – Protagoniști în educație; il giorno prima era a Galati, area frontaliera a nord, verso Odessa; ancora prima a Chelm e Wegrow, in Polonia, per organizzare poi interventi di emergenza con Avsi Polska e in partenariato con Caritas Lublino. Il suo team si è appena insediato anche a Leopoli, dove Avsi ha portato i primissimi aiuti alla popolazione ucraina organizzando un punto raccolta di beni di prima necessità, sostenendo la Caritas locale, le famiglie arrivate nei dormitori in fuga dai bunker di Zaporizhia, Kharkiv, le ong e le associazioni a cui si appoggia Fondazione Emmaus, con cui Avsi ha collaborato dal 2014 dall’inizio del conflitto del Donbass.

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«Stiamo aiutando i nostri partner a strutturare la risposta all’emergenza ai confini, stringendo accordi con le autorità locali e le municipalità per supportare lo sforzo dei paesi ospitanti di primo arrivo. Questo significa rispondere al bisogno dei profughi e di chi si è messo in moto per aiutarli, sostenendo costi e necessità di volontari che si occupino della prima accoglienza alla frontiera, e di chi opera nei centri per dare supporto psicologico e sociale, in particolare a bimbi e persone con bisogni speciali. Siamo partiti con l’acquistare e distribuire beni di prima necessità, ora dobbiamo pensare a strutturare delle attività di lungo respiro per le famiglie che non sono solo di passaggio».

Portare aiuto a chi è rimasto in Ucraina

Se la “prima ondata” di profughi faceva tappa solo un paio di giorni nelle strutture di accoglienza “frontaliere”, per poi raggiungere parenti e amici pronti ad accoglierli nelle proprie città, a varcare il confine sono ora donne e bambini che non sanno dove andare. «La dinamica è la stessa in tutti i paesi in guerra: i primi a lasciare il paese sono i “benestanti”, o comunque persone della classe media che hanno una destinazione e qualcuno da raggiungere. Ora l’urgenza è duplice. Aiutare chi non ha nessuno e non potrà fermarsi in eterno nei centri di primo aiuto: parlo del numero sempre più consistente di madri e bambini in cerca di accoglienza stabile. E soprattutto entrare in Ucraina per portare soccorso a chi è rimasto indietro, i più poveri e vulnerabili che non avevano possibilità e mezzi per scappare. Stiamo muovendoci da ovest, abbiamo preso contatti con Karkhiv per portare aiuto e denaro».

C’è un’altra urgenza: la spinta alla solidarietà e l’aiuto così necessario offerto spontaneamente da tutta Europa, in primis da Polonia e Romania, non sarà eterno. Anche questa è una dinamica acclarata: col passare del tempo la corsa all’accoglienza rischia di rallentare se lasciata alla spinta volontaristica e al buon cuore delle persone, «per questo è necessario lavorare fin da subito per sostenere e dare continuità al lavoro delle associazioni, sia ai confini che nei paesi ospitanti», spiega Calvi. Giorgio Capitanio, responsabile dei progetti in Italia di Avsi, ha spiegato al Post nei giorni scorsi che stanno individuando le famiglie a cui destinare voucher per le spese essenziali e approntando un programma per fornire ai profughi possibilità lavorative: «Secondo la direttiva europea sulla protezione temporanea i profughi potranno lavorare subito. Organizziamo quindi corsi di lingue e, per chi lo vorrà, corsi di formazione professionale. Infine, ci stiamo organizzando anche per inserire i bambini nel percorso scolastico. Anche questa è una direttiva europea, i bambini dovranno andare a scuola subito e questo significa anche inserirli nelle attività ricreative e di socializzazione».

Un pianto grato e disperato

Qualche giorno fa, a Chelm, dopo aver visitato la stazione, il magazzino, il palazzetto dello sport adibito a centro di prima accoglienza e quello strutturato per le permanenze più lunghe, immerso in quel vociare di volontari e cittadini affaccendati a smistare cibo, pannolini e medicine, registrare e identificare le famiglie, un rosario infinito di lingue e dialetti incomprensibili tradotti da interpreti e interrotti dai pianti dei bambini, Calvi aveva incontrato una donna. Ne aveva incontrate migliaia, ma lei era scoppiata in un pianto fragoroso. «Ci ha spiegato che piangeva per le cose perdute, lasciate, ma anche per quelle trovate. Non si aspettava, dopo aver perso tutto della vita di prima, dopo aver lasciato padre e marito in patria, di incontrare qualcuno che le desse aiuto».

Un pianto grato e disperato: accade anche questo all’orlo dell’Ucraina insanguinata, che donne desolate in fuga dalle bombe ringrazino. Per uno shampoo, un materasso, scarpe nuove. È la paura ad aver messo molte di loro in cammino, prima che arrivassero le bombe, prima ancora del bisogno, la paura a farle abbandonare il buio dei bunker e il suono delle sirene, spiega Calvi.

La paura, la fuga. «E ora?»

Ma una volta usciti dall’Ucraina la paura lascia il posto a una infinita e angosciosa domanda: e ora? Una famiglia di Dnipro ha raccontato di aver sognato spesso di lasciare il paese e cominciare una nuova vita in America, dove hanno qualche parente. Un sogno trasformato in fuga precipitosa alla fine di febbraio e in un incubo quando, appena arrivati in Polonia, il consolato americano ha negato loro il visto, «e ora sono lì, in Polonia, senza sapere assolutamente cosa fare. Mi chiedo continuamente cosa farei io al loro posto».

Famiglie in balìa della guerra, della solidarietà dei paesi europei, della terribile necessità: in Moldavia, avvisano i partner di Avsi, iniziano ad arrivare sempre più minori non accompagnati. Bambini affidati a sconosciuti in fuga da genitori che non potevano abbandonare anziani o disabili, ragazzini a piedi che si sono accodati a quella strana e dolorosa via crucis verso i confini. A Leopoli si stringono famiglie incapaci di separarsi dai figli di appena 18 anni che non possono lasciare il paese, in cerca di tranquillità. Ma la guerra avanza anche a ovest.  I missili di Putin hanno colpito Yavoriv, 50 chilometri dalla città considerata “oasi di pace”, 20 chilometri dal confine polacco. Nessuno sa accadrà nelle prossime ore, l’unica certezza, mentre le sirene riempiono i rifugi e le code frontiere, resta un aiuto umanitario senza tregua: c’è tantissimo lavoro da fare, famiglie da raggiungere e ospitare (qui tutte le informazioni per sostenere la campagna di Avsi Emergenza Ucraina #HelpUkraine).

Tags: avsiguerra ucrainaUcraina
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