L’avanguardia delle politiche gender si è accorta di essersi spinta troppo in là

Di Antonio Casciano
04 Dicembre 2020
Note sulla sentenza dell'Alta Corte britannica che ha imposto il vaglio di un tribunale per le richieste di cambio di genere da parte di minori
Keira Bell parla con i giornalisti davanti all'Alta Corte di Londra
Keira Bell parla con i giornalisti davanti all'Alta Corte di Londra (ansa)

Nota del Centro studi Livatino a margine della sentenza del 2 dicembre dell’Alta Corte inglese sull’uso della triptorelina.

1. Il mito di Androgino, narrato da Aristofane nel Simposio di Platone, narra di esseri primordiali che univano in sé i due sessi e la cui tracotanza, in uno col malcelato desiderio di scalare i vertici del potere olimpico, avrebbe indotto Zeus a punirne l’insolenza scindendoli, fino a farne di uno due esseri distinti quanto al sesso, destinati però, per l’eternità, a ricercarsi per completarsi, e ritrovare così la primigenia unità perduta. I tratti essenziali a cui rinvia questo modello di antropologia mitica sono quelli della differenza sessuale vissuta come maledizione, della distinzione sessuata pensata come strategia di indebolimento che gli dèi avrebbero messo a punto al fine di ridimensionare la boria degli esseri che osavano sfidarli nel nome della, primordiale anch’essa, pretesa di bastare a se stessi.

2. Un parallelo con la narrazione mitica emerge dai risvolti ultimi e inattesi di un avvenimento odierno. Quel prometeico sforzo di riscrittura dell’antropologia tradizionale che aveva fatto dell’Inghilterra la fucina delle avanguardie genderiste – basti pensare ai dati impressionanti relativi al numero di adolescenti e preadolescenti a oggi transizionati o in via di transizione[1] –  ha dovuto scontrarsi con la nemesi del contrappasso, che ne ha umiliato la pervicace hybris post-identitaria proprio per mezzo dei giudici: sì, di coloro che con frequenza sempre maggiore si auto-percepiscono come araldi del processo di rivoluzione culturale trans-umanista. Dall’adesione acritica al paradigma della sessualità post-genitale, ovvero dall’accettazione supina dell’idea di dispositivi eteronomi e soggettivizzanti della sessualità – per usare una terminologia cara a Michel Foucault – che sarebbero causa di un dressage[2] continuativo per mezzo del quale delineare storicamente la società del binarismo sessuale, i giudici inglesi parrebbero giunti a più miti consigli.

Non che abbiano abbandonato l’ossessione di una pretesa logica edu-castrante[3] che invarrebbe nella società odierna. Non che, cioè, abbiano rinunciato definitivamente alla lotta ideologica contro la mentalità patriarcale dell’uomo bianco, occidentale, eterosessuale, nei cui schemi binari sarebbe rimasto imbrigliato, a loro dire, finanche il “femminismo della differenza” (si pensi, ad esempio, a quello di Luce Irigaray). Però, dopo il primo “no” all’introduzione del self-id, ovvero del principio dell’autodeterminazione di genere contenuto nel Gender Recognition Act, al quale è seguito quello del Dipartimento dell’educazione, che ha opposto il suo diniego all’introduzione di programmi di educazione di genere nelle scuole, parrebbe – il condizionale è d’obbligo! – che il modello dell’identità fluttuante di genere, risolutamente post-metafisico, post-ontologico e post-umano, abbia subito un momentanea battuta d’arresto.

3. Perché, piaccia o meno, accettare l’idea della trattabilità dei conflitti identitari di genere ammettendo in prospettiva tanto l’accesso farmacologico alla triptorelina, quanto la chirurgia di riassegnazione sessuale, significa far proprie le premesse di fondo di un’antropologia che muove l’idea che si possa riscrivere del tutto l’identità personale di un soggetto a partire dalla sua appartenenza, solo pretesa, a un genere stabilito discrezionalmente, ignorando del tutto il dato del sesso anatomico: un’antropologia, cioè, che rappresenta un mero aggiornamento, nel solco dell’epistemologia de-costruttivista e performativa di butleriana memoria[4], del nichilismo antiumano e immanentista tipico del marxismo.

4. Che cosa è accaduto di tanto importante da ridestare le speranze di un ripensamento da parte degli inglesi, da sempre alfieri di un modello culturale libertario ed iperedonista? Keira Bell, oggi 23enne, si era sottoposta sette anni fa a un trattamento con bloccanti ormonali in seguito a una diagnosi – evidentemente non proprio accurata! – di disforia di genere disposta dalla nota Clinica Tavistock, di Londra (che si occupa proprio di fornire trattamenti nell’ambito del Gender Identity Development Service).

Nel corso degli anni Keira è stata trattata con ormoni cross-sex, inibitori dello sviluppo puberale e sottoposta a un intervento di mastectomia doppio. Senonché, pentita per quanto richiesto e agevolmente ottenuto, all’età di appena 16 anni, dal Sistema Sanitario inglese, ha intrapreso un’azione legale contro quest’ultimo conclusasi mercoledì scorso 2 dicembre con una storica sentenza dell’Alta Corte: essa ha statuito che è «altamente improbabile per un minore capire e soppesare le conseguenze a breve e lungo termine del trattamento [di transizione, mdr] e decidere se dare corso all’uso di bloccanti ormonali. C’è da dubitare che un bambino di 14 o 15 anni, possa capire […]». Ha poi aggiunto: «Date le conseguenze a lungo termine degli interventi clinici nel caso in questione, essendo del tutto nuovo e sperimentale, riconosciamo il fatto che in casi come questi i medici dovrebbero chiedere l’autorizzazione del Tribunale prima di intraprendere il trattamento».

Il clamore mediatico che ha avuto il caso, va in parte ascritto al fatto che, nella medesima pronuncia, l’Alta Corte era stata chiamata a delibare anche in ordine al caso di una bambina autistica di 15 anni, la cui madre si è battuta, fino al punto di dover adire i giudici, per vedere dichiarato privo di efficacia il consenso prestato dalla figlia ai servizi di gender transition, attualmente in lista di attesa per essere sottoposta ai relativi trattamenti.

5. In Italia, al via libera espresso, quasi all’unanimità[5], dal Comitato Nazionale di Bioetica, sull’inserimento nei Lea – Livelli essenziali di assistenza, dell’uso del Triptorelina nei casi di diagnosi di disforia di genere – nei cui confronti il Centro studi Rosario Livatino ha organizzando approfondimenti recuperabili qui e qui –, si è poi aggiunta la pressione, culturale, politica e mediatica per approvate il t.u. Zan in materia discriminazioni omofobiche.

La sentenza inglese permette qualche rapida considerazione. Anzitutto gli studi di follow up attualmente disponibili non permettono di escludere il rischio che la sospensione farmacologicamente indotta della pubertà fisiologica induca: a) conseguenze negative sulla crescita, sulla struttura scheletrica, sull’apparato cardio-vascolare, neurologico-cerebrale e metabolico e sulla fertilità dell’adolescente trattato; b) conseguenze sul suo sviluppo sessuale e su quello emotivo-cognitivo che da esso procede. Questo, per dire della assolutamente non certa “totale reversibilità” degli effetti prodotti sui minori dall’uso di bloccanti ormonali, checché ne dicano gli avvocati inglesi della Clinica Tavistock.

È poi fortemente dubbio che un adolescente, e a maggior ragione, come sempre più spesso accade, un preadolescente, sia in condizione di scegliere, per mezzo di un’adesione veramente libera, di accedere ai servizi di transizione di genere, adesione che dovrebbe essere dialogatainformata e soprattutto attuale. In questo caso, invece, il minore, in una fase peraltro delicatissima del suo sviluppo fisico, psichico e cognitivo, quale è quella della preadolescenza, appare non in grado di maturare, in nessun caso, un consenso autenticamente libero, volontario e informato: non solo rispetto alle scelte che attengono alla determinazione del genere, ma anche rispetto alle complicanze che un simile trattamento può prospetticamente avere sulla sua vita, per esempio quanto all’ipotesi che siano compromesse le sue facoltà riproduttive. Giusto dunque, ma non radicalmente risolutivo, aver previsto con la sentenza inglese una pronuncia giudiziale autorizzativa previa.

6. Infine, questo radicale cambiamento di rotta dell’antropologia necessita di appositi strumenti di affermazione, legittimazione e diffusione socio-culturale, rintracciati nella sempre più diffusa “cultura” della massimizzazione edonistica del desiderio individuale. Il rischio che si cela dietro alla pubblicizzazione della transizione di genere è di una centralizzazione indebita del desiderio pulsionale dell’adolescente, che riflette un’incapacità ormai generalizzata a relazionarsi correttamente con le dinamiche psichiche di tali soggettività in fieri.

Qui è in discussione il tema della libertà umana e dei suoi limiti, della possibilità cioè di valutare razionalmente i propri desideri e governarli in vista del conseguimento di una vita autenticamente piena. La perversione di tali dinamiche non può essere alimentata, in Italia e/o in Europa, da una incosciente corsa per recuperare, come si dice, il gap sulle politiche gender[6]. L’umiltà illuminata da un’antropologia ancorata al dato naturale deve tornare a guidare le scelte di legislatori e di giuristi, evitando di ripetere errori che la storia si è già incaricata di portare alla nostra sempre distratta attenzione, specie quando si tratta di errori fatalmente commessi sulla pelle di un minore.

Questi, infatti, potrebbe non avere mai più la possibilità di recuperare e di rimediare alle sbilenche richieste adolescenziali di autoaffermazione identitaria, quando non adeguatamente filtrate da quel vaglio prudenziale e sapienziale da parte dei genitori, la cui assenza sistematica nelle vite dei figli è sempre più spesso all’origine delle catastrofi esistenziali e generazionali a cui assistiamo, con il sempre più diffuso fenomeno dei de-transitioners.

Sarà sufficiente un giudice inglese a far tornare a riflettere il sistema sanitario italiano?

Antonio Casciano


[1] In Inghilterra e Galles sono 2700 i minori che hanno fatto richiesta di accesso ai Servizi di transizione di genere. Sono venti volte di quelli visti 10 anni fa. Il 76 per cento di essi sono ragazze; una dozzina ha meno di 13 anni; alcuni ne hanno 10.

[2] Cfr. Foucault, M., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993.

[3] Cfr. Mieli, M., Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli, Milano, 2002.

[4] Cfr. Butler, J., Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, (trad. it. di R. Zuppet), Sansoni, Firenze, 2004.

[5] Con la sola eccezione di Assuntina Morresi, autrice di una Postilla al testo nella quale chiariva che: «Gli adolescenti possono essere intensamente focalizzati sui propri desideri immediati, manifestando di conseguenza frustrazione e risentimento di fronte a qualsiasi ritardo nel ricevere il trattamento medico da cui ritengono trarre beneficio, e al quale si sentono autorizzati» e che «questo intenso focus sui bisogni immediati può creare problemi nell’assicurare che gli adolescenti siano cognitivamente e emotivamente capaci di prendere decisioni che cambiano la vita».

[6] Per un’idea più ampia su ciò di cui stiamo realmente parlando, si veda: Brunskell-Evans, H., Moore, M. (edd.), Transgender Children and Young People. Born in Your Own Body, Cambridge Scholars Publishing, 2018.

Foto Ansa

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