Caterina «fa la terapia respiratoria quattro volte al giorno per un totale di circa tre ore: il ventilatore, la bombola dell’ossigeno, l’aerosol. Poi lo spray con il distanziatore per evitare colpi al diaframma, le pillole per tenere aperti alveoli e bronchi, la composizione salina ad altissima concentrazione per staccare le secrezioni e, se c’è bisogno, l’antibiotico». Caterina vive con «la pep mask, lo strumento per misurare quanto riempio i polmoni (una persona della mia età dovrebbe fare 1.500 millilitri, il mio obiettivo è 750 ma è già tanto se arrivo tra i 250 e i 500), il Vesto, il giubbotto che vibra per staccare il muco dalle pareti dei bronchi». Caterina ogni giorno ingurgita «le vitamine per l’immunodeficienza, gli antibiotici di copertura, il ferro, gli antidolorifici, gli integratori. E l’eparina che mi devo iniettare sotto cute due volte al giorno per la trombofilia, l’infusione di immunoglobuline, ricavate dal sangue dei donatori, che faccio una volta alla settimana».
Caterina, poiché tutte queste precauzioni non le bastano, fa dentro e fuori dagli ospedali, oscillando come un pendolo fra la cameretta di casa e i reparti di rianimazione e terapia intensiva. Caterina è una terminale affetta da quattro malattie rare, «un caso più unico che raro».
Ora ha scritto un libro con l’aiuto di Daniele Mont d’Arpizio (Respiro dopo respiro. La mia storia, Piemme) e la prima sorpresa è che solo un capitolo è dedicato al “caso Caterina Simonsen”. Questo le fa onore: non ha voluto fare la vittima né atteggiarsi a personaggio, sebbene, quando prese posizione a favore della sperimentazione animale e contro il metodo Stamina e la cagnara suscitata dai «nazimalisti», come li chiamava lei, i maggiori telegiornali nazionali parlarono per giorni dei suoi video postati sui social network. Gli “anti-vivisettori” le dissero di tutto: che era pagata dalle multinazionali del farmaco, che non esisteva, che era meglio se fosse morta lei, anziché due o tre cavie da laboratorio.
Caterina vede le cose che vediamo noi, ma da una prospettiva diversa. Il fatto che a 26 anni sappia di non poter guarire «ha cambiato ogni cosa, ha ribaltato l’orizzonte. Prima di tutto, mi ha dato una certezza, e le certezze, per quanto dolorose, sono un punto di partenza, la gravità cui ancorare la tua esistenza». In secondo luogo, le ha fatto comprendere che non essendoci per lei un «poi», un «domani», «l’istante è tutto, passato, presente, futuro. Diventa l’aria che respiri». Come le dice a un certo punto Enrico, il fidanzato che lei vorrebbe allontanare per non farsi veder morire piano piano: «Fino a quando starò al tuo fianco? Per sempre».
È questa la questione più intensa dell’autobiografia. La consapevolezza che la vita come la morte «è una costante, è presente in ogni respiro» e che ogni essere umano ha un viscerale attaccamento a tutto quel che gli capita, doloroso o schifoso che sia: «Con il tempo sono arrivata persino ad amare le cicatrici che punteggiano il mio corpo, a trovarne un significato. Sono come le stelle che indicano la direzione ai marinai, come i puntini di quel gioco che solo uniti hanno un senso». E la ricerca di questo senso o «significato», come lo chiama Caterina, è ciò che ci accomuna tutti, sani o malati che siamo («la vita può essere difficile anche quando stai bene, sei figo e tutto il resto. La salute non basta a darle un significato»).
È così. È come suggerisce Caterina che dice di credere più nella scienza che nella religione, ma che intuisce senza razionalizzare, per una sorta di saggezza che le deriva dai suoi malanni perpetui, che la vita va spesa per qualcosa di più duraturo della vita stessa.