In attesa della primavera democratica i paesi arabi pensano a quella economica
Se le prospettive di ripresa dell’economia sotto un governo islamista dovessero giudicarsi dalle dichiarazioni sulla futura gestione del turismo fatte in campagna elettorale, in Egitto avrebbero di che preoccuparsi seriamente. Alle sparate dei salafiti, capaci di proporre l’occultamento sotto strati di cera delle “statue idolatriche” lasciate dai faraoni, a cominciare dalla Sfinge di Giza, e l’istituzione del “turismo halal”, cioè conforme alle norme della sharia che proibiscono il consumo di alcol, la promiscuità sulle spiagge e i bikini, hanno fatto eco incerte repliche da parte di esponenti dei Fratelli Musulmani, vincitori della maggioranza dei seggi nelle recenti elezioni.
Per un Mohamed Morsi, presidente del Partito della libertà e della giustizia, che nelle interviste spiega che gli islamisti non vogliono proibire il consumo di bevande alcoliche negli hotel e nelle località turistiche o nelle case degli egiziani, c’è la candidata al parlamento Azza al Jarf che in un comizio poco distante dalle piramidi grida: «I turisti non hanno bisogno di consumare alcol quando vengono in Egitto, ne hanno in abbondanza a casa loro. Vengano qui per vedere le antiche civiltà, non per bere». E Mohamed Saad el Katatni, il portavoce dei Fratelli Musulmani che ha cercato di rassicurare tutti dichiarando ad Al Ahram «il turismo non è questione di obblighi sul bere, mangiare e vestirsi (…), non abbiamo da impicciarci delle spiagge», è la stessa persona che qualche mese prima si era rivolto ai responsabili del turismo nel paese dicendo loro: «L’Egitto è un paese devoto e il turismo balneare e i bikini non dovrebbero essere ammessi nelle spiagge pubbliche».
Nei tre paesi dove gli islamisti hanno vinto le elezioni – Tunisia, Marocco ed Egitto – il turismo estero sta fra le primissime fonti di entrate e di occupazione. L’anno scorso ha rappresentato il 19,47 per cento del Pil marocchino, il 17,04 di quello tunisino, il 15,77 di quello egiziano. Il turismo contribuisce al 17,3 per cento dell’occupazione in Marocco, al 15,5 in Tunisia, al 13,9 in Egitto, dove gli addetti sono oltre 3 milioni. I mancati arrivi dovuti ai disordini politici che hanno contrassegnato il 2011 significano per Il Cairo 3,5-4 miliardi di dollari di entrate in meno, un terzo del valore che era stato registrato nel 2010 (12,5 miliardi di dollari).
Modello Erdogan
Mostrarsi leggeri o sconsiderati (nel caso dei salafiti) in una materia come questa, non depone a favore del senso di responsabilità delle nuove forze politiche che si affacciano al potere nel mondo arabo. Far discendere da questi ondeggiamenti un giudizio negativo preventivo sulle capacità di governo dell’islam politico sarebbe però affrettato. In Turchia, l’unico paese musulmano dove fino a ieri un partito dello stesso orientamento di quelli che hanno vinto le elezioni nei paesi del Nordafrica era salito al potere attraverso libere elezioni, un’economia in stato di depressione ha conosciuto un boom con pochi paragoni al mondo grazie ai governi islamisti moderati dell’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo) che si sono succeduti dal 2002 ad oggi. Fra il 2003 e quest’anno il Pil pro capite turco è passato da 3 mila a 11 mila dollari, mentre nello stesso tempo l’indebitamento dello Stato scendeva dal 73 per cento rispetto al Pil al 45 per cento. Nel pieno della crisi dell’euro e del debito sovrano di vari paesi europei, la Turchia ha conosciuto tassi di crescita del Pil dell’8,9 per cento nel 2010 e dell’8 per cento quest’anno, secondo le proiezioni. Le politiche di sviluppo economico promosse da Recep Tayyip Erdogan, a base di liberalizzazioni, privatizzazioni, riforme fiscali, equilibrio di bilancio e attrazione degli investimenti stranieri, sono state accolte con grande soddisfazione dalle imprese (sia quelle federate nella laica Tüsiad che quelle riunite nell’islamista Müsiad) e non sono state ostacolate dai sindacati.
I cugini arabi di Erdogan sapranno ripetere questi exploit? Difficile fare previsioni in questo momento, anche se i tunisini di Ennhadha sembrano i più vicini, come discorso, al modello turco, diversamente dai marocchini e dagli egiziani. «Siamo per un’economia liberale, che favorisca l’iniziativa privata», ha spiegato Ridha Saidi, coordinatore del programma economico e sociale di Ennhadha. «Il ruolo dello Stato deve essere quello di un regolatore. Deve definire le strategie». In Marocco le pose sono più populiste: «Disponiamo ancora di un margine di manovra, il nostro deficit è solo del 4-4,5 per cento e non dell’8 come molti paesi europei», dice Najib Boulif, deputato di Tangeri ed economista. «Penso che un deficit maggiore, ma che generi investimenti nell’infrastruttura produttiva e un miglioramento del livello di vita dei cittadini sia accettabile».
Gli egiziani restano fedeli alla polemica contro la speculazione finanziaria e a favore dell’economia reale e a proposte di politica sociale molto islamiste ma anche poco chiare, come quella di istituzionalizzare la zakat, l’elemosina obbligatoria islamica, per affiancarla alle normali tasse. Ma secondo Patrick Haenni, ricercatore svizzero autore di L’Islam de marché, «da una decina d’anni il discorso religioso dei Fratelli Musulmani è infuso di concetti e categorie tratti dal liberalismo, come l’individualismo e la riuscita personale, che non sono considerati in contraddizione con l’islam».
Ad accomunare i programmi politici di forze diverse di paesi diversi sembrano essere due punti soprattutto: la lotta alla corruzione, vista come un’efficacissima leva per la ripresa economica, e lo sviluppo della cosiddetta finanza islamica, finora marginale nel Nordafrica. Le differenze con la finanza ufficiale sono meno importanti di quanto si potrebbe credere, con gli interessi ribattezzati “commissioni di transazione” o “partecipazione agli utili” e l’esclusione di alcune forme di trading. Il punto è che la finanza conforme alla sharia muove già oggi 1.000 miliardi di dollari all’anno, e dispone di un mercato potenziale di 5 mila. Le banche islamiche rappresentano il 100 per cento degli attivi bancari in Iran, il 61 in Arabia Saudita e il 29 in Malaysia. La speranza degli islamisti alle soglie del potere in Tunisia, Marocco ed Egitto è che i grandi detentori di capitali dei paesi della penisola arabica, vicini per ideologia politico-religiosa ai loro partiti, decidano di avere dalla stessa parte il cuore e il portafogli e indirizzino i loro investimenti in iniziative di finanza islamica nei paesi dove si è recentemente votato. Che poi indìcano libere elezioni anche negli stati del Golfo, questa è tutta un’altra faccenda.
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