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Armine e altre risse all’osteria emozionale del social

Il caso creato a tavolino della modella di Gucci, un’operazione commerciale che non può fare a meno di quella ideologica: imporre il relativismo estetico alle masse (e il mercato ringrazia)

Rodolfo Casadei
07/09/2020 - 3:00
Società
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 Armine Harutyunyan, foto da Facebook

C’è poco da aggiungere al frizzante, documentato, dissacrante commento di Caterina Giojelli sul caso Armine Harutyunyan, la modella (pare per una sola volta) armena di Gucci che tanto ha fatto parlare di sé. Tranne una cosa che molti hanno già capito ma che va scandita chiara e tonda per chi ancora non ha afferrato i meccanismi della comunicazione contemporanea: tutto il caso è stato creato a tavolino. Per scopi commerciali e ideologici insieme. A tavolino si è deciso di provocare il cosiddetto body-shaming e l’assalto dei cosiddetti haters. Se carichi su Instagram una serie di foto calibrate esattamente per mettere in risalto le irregolarità di una fisionomia, per far notare l’inestetismo delle sopracciglia, per evidenziare la sproporzione fra bocca e volto; e se contemporaneamente lanci sul web la notizia senza indicazione della fonte che la persona ritratta in quelle foto compare nella «lista delle 100 donne più sexy del mondo», è evidente che cerchi l’incidente, è evidente che cerchi la rissa. Sai bene che nell’osteria planetaria dei social c’è sempre una modestissima percentuale di ubriachi che reagiranno da ubriachi con invettive, contumelie e altre  maleducazioni. Ne bastano 10 mila su 1 miliardo, cioè lo 0,00001 per cento, e il gioco è fatto: hai creato una vittima, la tua campagna può decollare. Perché al giorno d’oggi se vuoi fare una campagna – pubblicitaria, politica, d’opinione, di sensibilizzazione sociale – devi esibire una vittima, devi fare del vittimismo. L’operazione Armine serviva a creare una vittima per poi montarci sopra un sermone moralizzatore che mira sia ad aumentare le vendite dei prodotti del marchio dietro la campagna pubblicitaria, sia a imporre una visione del mondo.

DATE IL RELATIVISMO ESTETICO ALLE MASSE DALLE TASCHE BUCATE

La strategia pubblicitaria commerciale in questo caso non è semplicemente far parlare di sé, rilanciare il marchio che sarà citato in milioni di post e titoli e commenti di pubblicazioni sia cartacee che online; la strategia consiste nel far passare il messaggio che non è necessario avere le forme di Claudia Schiffer o di Naomi Campbell per andare in giro con una borsetta da 1.500 euro o per indossare un abito da 5 mila. «Ragazza, signora, sei un po’ racchia? Fa niente, anche tu ha diritto di approfittare dell’alta moda». Ed ecco che il potenziale mercato dei propri prodotti è significativamente ampliato.

L’operazione commerciale non può fare a meno dell’operazione ideologica, che consiste nel riaffermare il principio relativista che non ci sono più gerarchie, non ci sono più giudizi oggettivi, non ci sono più canoni indiscutibili. La bellezza è soggettiva/ la bellezza non è più l’unico valore estetico: queste sono le due distinte versioni attraverso le quali il relativismo dopo essere stato applicato al sapere sia teoretico che morale (non c’è più vero e falso, non c’è più giusto e sbagliato) e al giudizio etico (non c’è più uno schema fisso per distinguere atti buoni e atti cattivi), ora viene applicato al giudizio estetico: la bellezza oggettiva non esiste, ovvero l’estetica ha scopi più importanti che concentrarsi sulla bellezza. Che scopo dell’arte non è più offrire all’uomo la bellezza di cui ha bisogno per continuare ad apprezzare la vita ma trasmettere messaggi filosofici, politici, sociali, ecc. è assodato a partire dalla Fontana-Orinatoio di Marcel Duchamp, e tutta l’arte contemporanea si sviluppa su questa linea. Ma il messaggio è rimasto elitario. Oggi si tratta di imporre il relativismo estetico alle masse, che non dispongono dei milioni di euro necessari ad acquistare le opere di Cattelan, Koons, Hirst, ecc., e le campagne pubblicitarie dell’industria della moda sono il veicolo ideale per farlo.

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CONSUMI E ACQUISTI COME ATTI DI RIPARAZIONE

I meccanismi che si intende mettere in moto – e l’obiettivo è puntualmente realizzato – non sono di natura razionale, ma emozionale. La scontata reazione dei 10 mila (il numero è puramente indicativo) oligofrenici che non possono fare a meno di postare insulti e ingiurie sui social contro la modella fatta passare per una delle 100 donne più sexy del pianeta permette al commerciante ideologo di dividere l’umanità in due campi: quelli che immediatamente sono scesi in campo in difesa della pulzella offesa, i cavalieri bianchi virtuali che soccorrono la vittima a suon di post scandalizzati che esecrano il comportamento degli “haters”; e quelli che hanno pensato che sì, la modella è brutta, ma non hanno ritenuto di dover manifestare il loro punto di vista sul web né in modo educato né in modo maleducato, e sono rimasti in silenzio davanti al dramma elettronico che si svolgeva sotto i loro occhi. I primi hanno provato la gratificazione psicologica di sentirsi buoni, e questo li spingerà alla gratitudine verso chi ha innescato il processo che ha permesso loro di fruire di un senso di appagamento e a prendere parte alle future battaglie che mirano all’”inclusione”, la parola scelta e imposta dai propagandisti del relativismo per sviare le accuse di omologazione, livellamento, uniformazione, ecc.  È in nome dell’inclusione che il brutto è diversamente bello, il basso è diversamente alto, ecc. I secondi proveranno dentro di sé un senso di colpa per aver pensato pensieri e formulato giudizi discriminatori, inferiorizzanti, non meno gravi per il fatto che non sono stati espressi pubblicamente come quelli degli “haters”. A loro il commerciante ideologo fornirà le occasioni per riscattarsi, per compiere cioè atti di riparazione che consistono nell’esprimere pubblicamente giusti pensieri con giuste parole e nel farsi guidare dai princìpi dell’inclusività al momento di fare acquisti.

MINIMO TABÙ, MASSIMO PROFITTO

Perché il nesso fra relativismo e attività di comunicazione delle grandi imprese commerciali è diventato così pervasivo? Perché le campagne per l’uguaglianza (in realtà omologazione) universale e per l’universalizzazione dei diritti (in realtà capricci) oggi sono condotte più dalle multinazionali che da partiti o movimenti politici? Perché chi vende prodotti è così preoccupato che i brutti vedano realizzato il loro diritto a essere considerati belli, che certi maschi siano ufficialmente considerati donne, che chi non ha partorito un figlio veda soddisfatto il suo desiderio di essere considerata madre, che i molteplici connubi umani siano considerati tutti matrimoni a norma di legge, ecc.? Ma perché la massimizzazione dei profitti esige la minimizzazione dei tabù. Meno divieti ci sono – giusti o sbagliati che siano – e più merci o servizi si vendono. Più sono ampie le categorie dei consumatori potenziali e più potrà crescere il giro di affari. Alle origini del modo di produzione capitalista i tabù erano funzionali allo sviluppo delle forze produttive: il lavoratore doveva essere sobrio, moralmente integro, morigerato, casto, dedito al partner con cui aveva formato una famiglia. Queste qualità ne facevano un lavoratore puntuale, serio, produttivo. Oggi che gran parte del lavoro è automatizzata e che la produttività del lavoro si può far crescere in molti modi che non hanno a che fare con la moralità del lavoratore, una società disinibita e senza gerarchie a nessun livello, fosse pure quello estetico, è l’ambiente ideale per aumentare i consumi e con ciò i profitti. Per abbattere i tabù restanti bisogna creare senso di colpa in chi ancora li giustifica, e per creare senso di colpa bisogna creare vittime, e il luogo ideale per alimentare la logica vittimista è l’osteria emozionale dei social. Il gioco funziona così.

Tags: Armine Harutyunyanbellezzabody shamingsocial
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