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Ode ad Armine, a cui non frega nulla di fare l’icona anti body shaming

Le palingenesi, Schopenhauer, i trattati contro il maschio tossico. E sapete quanto gliene cale alla modella di Gucci? Niente

Caterina Giojelli
02/09/2020 - 3:00
Società
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Armine Harutyunyan, foto da Instagram

Sognavano le palingenesi e hanno pestato una bovazza. Ora lei parla a Repubblica e scopriamo che per Gucci ha sfilato una volta sola, che mica è una modella professionista, che in questi giorni si sta facendo una padella di fatti propri ad Erevan, capitale dell’Armenia, e non ha la più pallida idea del perché in Italia si parli tanto di lei dal nulla e a caso, sottinteso: ce la fate voi italiani?

Lei è Armine Harutyunyan, quella che i bravi solipsisti ci hanno venduto per giorni come la “musa di Gucci”, “bellezza non convenzionale”, “vittima di body shaming”, “volto della diversity”, “simbolo dell’inclusione e della body positivity”, che “sfida gli standard”, “bersaglio degli haters” e della “cultura dello hate sharing”. Già lì doveva venirci il dubbio.

PLATONE, IL BUNGA BUNGA E @PEPPE75

Comunque: grazie al solito perverso effetto social Armine è diventata il caso di fine estate, e dopo aver pagato pegno per il colonialismo dei padri, il razzismo sistemico, la fame del terzo mondo, l’immigrazione, i morti in mare, i femminicidi, la disparità di genere, l’omofobia, il fascismo, la xenofobia, il sessismo, l’islamofobia, la transfobia, il negazionismo climatico e pandemico, ora ci tocca la rieducazione a ciò che muove il mondo e cantori del mondo fin dai tempi di Omero, Elena e Briseide: donne e bellezza.

Per colpa dei @peppe75 della rete abbiamo così subìto articolesse e omelie su etica, estetica, Platone, Almodovar, il fenotipo armeno, la fashion semiology, il bungabunghismo berlusconiano, la scuola di Barthes, l’emancipazione, la Venere di Milo e sorelle, André Gide, la vitiligine, le curvy: ai disprezzatori della rete capaci solo di cinquantacinquemila sfumature volgarissime di un semplice “oddio che brutta questa Armine” è stato infatti risposto con lenzuolate di complessità – tutta logorrea democratica e sbronza giacobina – sulla relatività del bello e l’immancabile calata di ghigliottina sul maschio tossico da rieducare perché non è mica bello ciò che è bello ma è bello ciò che non piace a lui che non sa distinguere una accompagnatrice da un “puntello narrativo”: così Jonathan Bazzi sulla newsletter di Domani e su chi fa “coming out di ignoranza” e “la libido maschile misura di tutte le cose”. “Torna in mente Schopenhauer” scrive Flavia Piccinni sull’Huffington Post, dopo aver denunciato “l’imperante misoginia, e le dinamiche tossiche che continuano a essere alla base dei rapporti maschio/femmina ove tutto è filtrato attraverso l’apparenza” e parlando della “miseria stereotipata che ci meritiamo”.

LO SCIAME DEI PHILOSOPHES, IL MARKETING DI GUCCI

Lo sciame dei philosophes invade la rete per randellare @peppe75 ma anche le (poche) voci, vedi Elena Loewentahl o Marina Terragni, che dicono che Armine non è bella, che Gucci fa marketing. Il che è verissimo: di quel genio di Alessandro Michele, direttore creativo della maison italiana che secondo tutti sta “rivoluzionando l’idea di bellezza” ora sappiamo che sa fare benissimo il suo lavoro, che con una sconosciuta dell’Armenia ha ottenuto più di quanto sia riuscito a fare con la modella con la sindrome di down e insieme la collezione “my body my choice” e il ricamo “22.5.78” creata per rendere omaggio alla 194, più che con le ossute modelle taglia 34 in spregio ai codici antianoressia, più di tutte le donne non belle (no dico, le avete viste le eredi Gucci delle supertop degli anni Novanta scelte da quegli evidentemente libidinosi maschi tossici chiamati Versace, Armani o Valentino?) scelte da Michele perché nell’epoca queer e tuttifluidi sono le portatrici sane di un motivo per essere stigmatizzate a diventare “un caso”.

E così, mentre Gucci vende, con lo stesso meccanismo speculare a quei bifolchi che riducono la bellezza a un mero dato estetico formale, i nobili editorialisti ci hanno spiegato che la bellezza sarebbe in pratica come il dito medio di Cattelan, che è tanto bello ma va spiegato e le masse non lo capiranno mai. Poi, il colpo di scena. Dopo due settimane di nobilitazione del naso adunco e del monosopracciglio armeno, fermi tutti: Armine Harutyunyan, l’intensa, brillante, almodovariana Armine risponde a Repubblica.

«NON SONO SOLO UNA FACCIA», PRENDANO APPUNTI HATERS E SALOTTI

E che dice? Dice boh, che “onestamente” non sa perché si parla di lei, “davvero non me lo spiego, anche perché ho sfilato per Gucci un anno fa, non c’è nulla di nuovo di cui discutere”. Dice che lavora come designer, che dopo la sfilata di Gucci il programma di una tv turca aveva iniziato a fare la sua parodia, e chi ha un minimo di nozioni storiche sa che per una armena non è esattamente come essere bersagliata da @peppe75; che “non vale la pena preoccuparsi” del resto; a domanda della giornalista che le chiede perché “non ha ancora affrontato sui suoi social media tutto quello che è accaduto negli ultimi giorni” risponde semplicemente che “non mi sembra necessario”, che è “meglio essere diversi che omologati” e che quando si guarda allo specchio “vedo una persona che è più di una faccia, che ha tanti interessi, tante cose da dire e da fare. E che non ha tempo per chi la vuole abbattere”.

Prendano appunti gli haters, ma soprattutto l’internazionale conformista che a colpi di Schopenhauer e compagnia filosofante ha dissezionato la sua faccia armena fino all’ultimo pelo di sopracciglio per rivoluzionare l’idea di bellezza, tutto sulla pelle di una ragazza di 23 anni che in Armenia stava occupandosi allegramente di farsi la sua vita e non quella dell’icona anti body shaming, hate sharing, libera dalla libidine del salotto misura di tutte le cose.

Foto Ansa

Tags: Armine Harutyunyanbellezzaguccimoda
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