«Non è solo con le app e le start up che si rilancia l’economia. L’Italia scommetta su Pmi, manifattura e agroalimentare»
Le 47 mila imprese che sono sopravvissute alla crisi sono cresciute del 26 per cento tra il 2007 e il 2012. Mentre le 8 mila che hanno chiuso i battenti o sono fallite si sono portate con sé 405 mila posti di lavoro andati persi. È la fotografia che dell’Italia ha fatto l’Osservatorio sulla competitività delle Pmi della Sda Bocconi, monitorando negli anni un campione di 55 mila imprese con un fatturato compreso tra i 5 e i 50 milioni di euro. Una fetta di economia che, pur rappresentando solo il 6 per cento delle imprese italiane, produce il 39 per cento del Pil o occupa circa 2,3 milioni di persone, senza contare l’indotto. È il modello di impresa tipico del «capitalismo familiare» italiano, spiega tempi.it Federico Visconti, docente di Business Strategy nell’ateneo di via Sarfatti, nonché responsabile dell’Osservatorio. Di queste 47 mila pmi, 1.165, pari al 2,5 per cento, hanno fatto registrare tassi di crescita positivi sempre superiori alla media del periodo.
Professore, come si sopravvive nella crisi?
Nessuno ha la ricetta in tasca. Lo studio, però, ha messo in luce tre aspetti che devono far riflettere. Primo, molte imprese, per sopravvivere, hanno congelato gli investimenti, sacrificando non poco la competitività prospettica, con il rischio che tra qualche hanno possano fare addirittura più fatica. Secondo, una proprietà concentrata, come avviene nelle aziende a conduzione familiare, aiuta a prendere le decisioni, a compiere scelte importanti e i dati lo confermano: queste aziende, infatti, sono cresciute più delle altre o hanno guadagnato di più. Terzo, un terzo delle 47 mila imprese che sono sopravvissute hanno una posizione finanziaria netta negativa, cioè hanno più liquidità che debiti; detto altrimenti, significa che hanno messo da parte qualche soldo e non dipendono strettamente dalle banche.
I posti di lavoro persi, però, sono più di 400 mila…
I risultati del nostro studio non mirano certo ad alimentare un ottimismo superficiale o a destare aspettative che possano rivelarsi infondate. Del resto, basta uscire per le strade e vedere i capannoni chiusi per capire cosa sta succedendo all’Italia. Come dimostra anche il fatto che il nostro campione di imprese è calato da 55 a 47 mila. Il futuro che ci aspetta sarà inevitabilmente selettivo ed è proprio per questo motivo che è importante saper distinguere quando un’impresa è ben gestita da una che, invece, “vivacchia”. Quello che abbiamo cercato di fare, pertanto, è di far capire a tutti che il modello del capitalismo familiare italiano è ancora valido e ha futuro in questo Paese. È un tesoro che dobbiamo saper custodire e valorizzare.
Come?
Tra le 8 mila imprese che si sono perse per strada dal 2007 a oggi ci sarà stato sicuramente chi non aveva i numeri per sopravvivere, ma quello che dimostra lo studio è che l’imprenditoria tradizionale italiana, specie nel manifatturiero e nell’agroalimentare, ha ancora i numeri per ripartire e in molti casi l’ha fatto. Non si può pensare di uscire dalla crisi semplicemente spingendo l’acceleratore sulle “start up con le app”, che danno da lavorare al massimo a una persona oltre quella che l’ha fondata. Un’impresa che fattura tra i 5 e i 50 milioni di euro, infatti, può offrire un impiego a 25 o addirittura a 100 persone. Che è un po’ diverso.
Di cosa hanno bisogno queste imprese per ripartire?
La questione dell’accesso al credito in molti casi rimane, anche perché pesano più che mai i ritardi nei pagamenti, tanto da parte dei privati quanto da parte della pubblica amministrazione; ma non dimentichiamoci nemmeno che chi fallisce, spesso, i debiti con le banche li aveva anche da prima della crisi e se non hai i numeri per stare in piedi non è detto che tu debba provare a farlo a tutti i costi. Poi, ci sono una serie di inefficienze collegate in vario modo alla burocrazia che andrebbero risolte, così come un certo numero di rigidità tipiche del mercato del lavoro qui in Italia che sono di ostacolo alle assunzioni. Ma, attenzione, se simili storture ancora sopravvivono è anche perché, in qualche modo, il modello economico italiano le ha volute o quantomeno le ha permesse.
Inoltre, ci sarebbe bisogno di un livello minimo di infrastrutture che permettano alle imprese di lavorare e che le istituzioni collaborino a diffondere cultura economica nel Paese e ad aprire sempre nuove possibilità di internazionalizzazione per il Paese (come fanno, per esempio, le banche in Germania che aprono le porte del mondo alle imprese). Anche le reti d’impresa, in questo senso sono importanti. Infine, è più che mai importante recuperare il legame tra il mondo della scuola e quello dell’impresa che è da sempre un tratto tipico della nostra tradizione.
Anche gli imprenditori devono cambiare qualcosa?
C’è un tratto culturale tipico dell’imprenditoria italiana che non possiamo permetterci di smarrire: mi riferisco a quella originale energia, voglia di fare e costruire e, talvolta, anche a una certa propensione al rischio, che gli imprenditori italiani hanno sempre avuto. Certo, non è cosa che si può più chiedere a chi ha già raggiunto i 70 anni e la sua storia imprenditoriale l’ha scritta. È qualcosa che compete, piuttosto, agli imprenditori trentenni e quarantenni di oggi.
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