![Di troppa inclusività si scoppia. Ora tocca alla Royal Society of Literature](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2025/01/atwood-evaristo-ansa-345x194.jpg)
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Qui si vorrebbe sapere se per completare il ragionamento di Massimo Gramellini ieri sul Corsera non occorra fare anche qualche altro nome. Qualche altro nome oltre a quello di Giorgia Meloni, accusata di essere la «sacerdotessa del vittimismo» perché ha osato promuovere e difendere la sorella Arianna da una campagna di stampa diffamatoria, fatta di illazioni e vignette sconce.
Qui si vorrebbe sapere se Gramellini, che è al solito brillante nell’elencare le ipocrisie e malefatte altrui, la pagliuzza altrui, la stupidità altrui, la doppiezza altrui, ecco si vorrebbe sapere se non è forse lui il primo a dimenticare furbescamente qualche nome.
Perché lo sappiamo tutti che, mancando altri argomenti, diciamo così, più seri e politici, il nostro giornalismo è da una vita che se la prende con “le mogli di”, “il fratello di”, “il cugino di” e – nel caso Meloni – “il marito di” e “la sorella di”. Però allora bisognerebbe dirla tutto e fino in fondo e magari andare a vedere anche dentro le redazioni dei giornali quanti fratelli, sorelle, mogli o amanti ci sono, prima di accusare gli altri di familismo e tartuferia.
Soprattutto il trentarighista sincero democratico e giornalista super partes, ex signor Rodotà, dovrebbe farci sapere perché medesimo astio e sgomento non ha mai mostrato per altri casi di mogli (tipo Michela Di Biase in Franceschini, leggetevi cosa scriveva), compagne (Nilde Iotti in Togliatti) e fratelli (Enrico e Giovanni Berlinguer, Giuliano e Gian Carlo Pajetta, Piersanti e Sergio Mattarella).
Insomma, qui si vorrebbe sapere se è solo questione che c’è “famiglia” (di destra) e “famiglia” (di sinistra) oppure se, più banalmente, anche i corsivisti del Corriere tengono famiglia.
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