I medici frenano sugli ormoni ai ragazzi transgender

Di Caterina Giojelli
19 Gennaio 2022
Dopo avere ignorato gli allarmi dei luminari della medicina di genere anche il New York Times inizia a considerare i rischi dell'approccio "affirming" sui minori: «Non possono assolutamente essere trattati come gli adulti», denunciano tanti professionisti

«Gli adolescenti transgender devono assolutamente essere trattati in maniera diversa dagli adulti». Dopo aver denunciato gli elevatissimi margini di errore dei Nipt test, i test prenatali non invasivi, nell’individuare malattie rare («sbagliano 85 volte su 100»), il New York Times mette in discussione un altro totem della narrazione mainstream: l’uso dei bloccanti della pubertà e l’ormonizzazione precoce degli adolescenti americani.

Le preoccupazioni ignorate

Perché stupirsi? Perché tre mesi fa il New York Times aveva deciso di non pubblicare una sola riga di quelle inviate alla redazione da due luminari della medicina transgender preoccupati dal numero dei bambini avviati oggi alla transizione di genere. Tempi vi aveva raccontato il caso qui: non stiamo parlando di due medici qualunque, ma di Marci Bowers, chirurga di fama mondiale (è stata lei a operare la star dei reality Jazz Jennings) e di Erica Anderson, psicologa clinica presso l’affollatissima Child and Adolescent Gender Clinic dell’Università della California, entrambe ai vertici della World Professional Association for Transgender Health (Wpath). Stiamo parlando di due transgender, stimatissime dai colleghi ma passate dal lato “sbagliato” della storia non appena hanno osato contestare la posizione della maggioranza dei colleghi della Wpath e la narrativa di giornali e attivisti.

Il Nyt “silenzia” i guru transgender

Va da sé che la loro denuncia potesse trovare spazio solo nella newsletter di Bari Weiss: intervistate da Abigail Shrier, autrice di Irreversible Damage (inchiesta sul picco di trans-identificazioni da femmina a maschio, per l’Economist uno dei migliori libri del 2020), i medici raccontarono di avere inviato al New York Times un opinion editorial scritto a quattro mani, un pezzo critico del modo “avventato” con cui molti operatori sanitari stavano avviando i bambini alla transizione. Pubblicazione accolta? Macché, il Nyt aveva risposto che non c’era attinenza con le priorità del giornale in quel momento.

Di sicuro non c’era attinenza con la linea editoriale: contrarie all’uso dei bloccanti fin dalla pubertà, pronte a smontare la narrazione degli interventi “completamente reversibili” predicati dalla Wpath da almeno un decennio, nonché l’approccio “affirming” fondato sull’assunto che i bambini non sanno cosa è meglio per loro e soffrono in un corpo sbagliato, i medici denunciarono a Shirer l’omertà dei colleghi: «Stanno cercando di tenere fuori chiunque non accetti ciecamente la linea del partito secondo cui tutto dovrebbe essere “affirming” e non c’è spazio per il dissenso. È un errore», «nessuno scrive che i pazienti che assumono bloccanti della pubertà finiscono quasi sicuramente per assumere ormoni sessuali incrociati – e questa combinazione tende a lasciare i pazienti sterili e sessualmente disfunzionali».

«Medici divisi: ci sono dei rischi»

Tre mesi dopo la denuncia trova cittadinanza sul Nyt: la Wpath ha pubblicato infatti nuove linee guida tanto progressivamente aggiornate sul fronte adulti (tra le altre, viene rimossa la valutazione di un terapista come passaggio preliminare all’accesso alla terapia ormonale) quanto “caute” nei confronti di adolescenti e bambini. Per la prima volta un intero capitolo dedicato ai minori sottolinea infatti l’importanza di occuparsi della loro condizione psicologica prima di trattarli con farmaci e ormoni e di accertare che essi abbiano messo in discussione la propria identità di genere «per diversi anni» prima di procedere.

«Gli esperti di salute transgender sono divisi su queste raccomandazioni adolescenziali», ammette il Nyt, citando «rischi contrastanti» per i giovani, quali «la perdita irreversibile della fertilità», e «in alcuni casi, ritenuti piuttosto rari, la “detransizione” al genere che era loro assegnato alla nascita». Viene citata anche Laura Edwards-Leeper, psicologa clinica infantile a Beaverton, Oregon, che lavora con adolescenti transgender e sostiene che essi vadano «assolutamente trattati in modo diverso» rispetto agli adulti, cioè passando prima per una seria e attenta indagine delle cause della disforia denunciata.

«Preferireste un figlio morto o trans?»

Edwards-Leeper è una dei sette autori del nuovo capitolo sui giovani; la Wpath non l’autorizza a rilasciare dichiarazioni a nome dell’associazione, ma la sua posizione, chiarissima, l’ha espressa firmando un articolo sul Washington Post un mese fa proprio insieme a Erica Anderson: nel pezzo denunciavano la facilità con cui i terapeuti si stanno limitando ad affermare la nuova identità dei giovani spianando loro la strada a trattamenti ormonali e magari anche chirurgici, nonché a istruire i genitori su come “supportare” e trasferire socialmente la nuova identità dei figli che altrimenti potrebbero «porre fine» alla loro vita: «Il 41 per cento dei bambini non supportati si suicida», è stato detto da uno di questi ai genitori della giovanissima Patricia, «preferireste avere un figlio morto o uno trans?».

«Siamo entrambi psicologi che hanno dedicato la propria carriera a servire i pazienti transgender con un trattamento etico e basato sull’evidenza. Ma stiamo assistendo a un’ondata di casi di disforia di genere come quello di Patricia, casi che vengono gestiti male», scrivono i medici sul Wp. «Il numero di adolescenti che richiedono cure mediche è alle stelle: ora l’1,8 per cento delle persone sotto i 18 anni si identifica come transgender, il doppio rispetto a cinque anni fa».

C’è chi, come Johanna Olson-Kennedy, pediatra del Children’s Hospital di Los Angeles, somministra ormoni a bambini di appena 12 anni come si trattasse di diabetici che necessitano di insulina, rifiutando la terapia esplorativa di genere come parte del percorso di transizione; ci sono medici terrorizzati di essere additati come «bigotti transfobici» dai colleghi; medici che paragonano qualunque approccio psicologico alla “terapia di conversione”; medici come AJ Eckert, il direttore di Anchor Health Initiative nel Connecticut per il quale «la terapia non può rappresentare alcun requisito (per il trattamento, ndr) perché essere trans non è una patologia».

Chi dissente aiuta il Texas transfobico

Tutto questo sta portando chi si trova a rimettere insieme i cocci di adolescenti trattati alla leggera a uscire dal coro: «Inconcepibile», a questo proposito, per Edwards-Leeper e Anderson, «la pressione da parte dei fornitori di servizi sanitari e mentali e di alcune organizzazioni Lgbt nazionali per mettere a tacere la voce dei detransitioners e sabotare la discussione su ciò che sta accadendo». Il derby è sempre sui rischi: non manca il Nyt di sottolineare che secondo i Centers for Disease Control and Prevention gli adolescenti transgender sono ad alto rischio di suicidio e che il disaccordo tra medici su come prendersi cura di loro, oltre ad aggravarne la tendenza autolesionista, potrebbe dare benzina a progetti di legge come quello del Texas (dove il governatore Greg Abbott definisce «abusi su minori» i tentativi di riassegnare il genere con la chirurgia a bimbi e adolescenti).

Secondo l’approccio “affirming” che ha preso piede in America vent’anni fa, «i minori dovrebbero essere in grado di vivere la propria identità di genere liberamente, senza che medici o genitori impongano ritardi inutili – riassume il Nyt –. Il loro percorso potrebbe comportare farmaci e interventi chirurgici come nessun trattamento medico». Nessuno? Nel 2012 c’erano 4 cliniche per il cambiamento di genere dei ragazzi negli Stati Uniti, oggi sono 50. Le nuove linee guida suggeriscono di fissare un’età minima, per ciascun trattamento: 14 per l’inizio della terapia ormonale, 15 per la “mascolinizzazione” del torace e almeno 17 per le operazioni genitali più invasive.

Tuttavia il disaccordo nasce sull’offerta ai ragazzi di una valutazione della salute mentale quale condizione per accedere a questi trattamenti, dagli ormoni fino alla chirurgia. Per i medici più progressisti sarebbe come tornare indietro, al 1979, quando le prime linee guida scritte da un manipolo di medici riuniti a San Diego consideravano la disforia di genere alla stregua di un “disturbo psicologico”. O peggio, dare argomentazioni per il futuro ai Greg Abbott d’America.

Niente terapia, per la rinoplastica non serve

Secondo gli alfieri dell’approccio affirming, la terapia porterebbe a una stigmatizzazione e patologizzazione inutile dal momento che – parole di Alex Keuroghlian, psichiatra clinico presso la Fenway Health di Boston – non è una terapia richiesta «alle pazienti cisgender che si sottopongono a mastoplastica additiva, isterectomia o rinoplastica». Per la “scuola” di Keuroghlian e altri, come AJ Eckert, depressione e ansia si risolverebbero anzi curando il genere, e non il contrario, mentre «passare attraverso una pubertà incongruente può causare traumi a lungo termine e danni fisici».

Di tutt’altro avviso i medici dalla parte di Edwards-Leeper, una che nel 2007 ha contribuito a creare una delle prime cliniche di genere giovanile negli Stati Uniti, a Boston, e che assicura: «I ragazzi che si presentano in questi giorni sono molto diversi da quello che vedevo all’inizio», ragazzi convogliati nelle cliniche di genere spesso dalle piattaforme TikTok o YouTube. «A nessun giovane possono essere sottratte le cure di cui ha bisogno», ha chiarito Anderson, 70 anni di cui la maggior parte passati senza intraprendere alcuna transizione di genere, «Ma la domanda è: stanno accadendo cose ora che non stavano accadendo 10 o 15 anni fa?». Chiedetelo al Nyt, il giornale che tanto ha strepitato nell’ultimo anno che non esiste alcuna moda transgender tra i giovani, nessun rischio, solo civiltà che avanza.

Foto di Sharon McCutcheon su Unsplash

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