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Scommettiamo sull’Africa? Un tentativo di affrontare la “bomba migratoria” senza assistenzialismo

Serve un business ad alto impatto sociale. Ecco cosa sta succedendo (e con quali vantaggi per le Pmi italiane) nei paesi subsahariani in cui la fondazione E4impact ha formato nuovi manager

Mario Molteni
17/09/2015 - 3:00
Economia
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Pubblichiamo un articolo tratto dal numero del settimanale Tempi in edicola

L’emergenza lavoro attraversa, in modo diverso, tutti i continenti. Se in Italia la disoccupazione giovanile rischia di emarginare dal paese tanti ragazzi che si affacciano sul mondo del lavoro dopo la scuola o l’università, in Africa l’assenza di lavoro è una delle principali determinanti dei drammatici flussi migratori che sono sotto i nostri occhi. Proprio nello scorso numero di Tempi, il demografo Gian Carlo Blangiardo ha affermato: «L’Africa è ricca di capitale umano, quello che le manca sono i capitali finanziari e i manager capaci di fare impresa. Un uomo disposto ad attraversare il mare su un barcone è certamente uno a cui non manca spirito di iniziativa: proviamo a formare queste persone, ma seriamente, non per specularci sopra» (cfr. Tempi 36, “Se scoppia la bomba migratoria”). Quella che presentiamo è una risposta, piccola ma non irrilevante, a questo appello: E4impact, una rete di Master per imprenditori africani ad alto impatto sociale, concepito in Università Cattolica ed erogato in Africa, per ora, in cinque paesi.

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L’avventura di E4impact, come tutte le cose davvero serie, è iniziata per caso e proseguita con salti inattesi. Nel 2005 Propaganda Fide chiede all’Università Cattolica di proporre un master a Castel Gandolfo per futuri manager africani, una ventina di giovani promesse venuti da tutto il continente. Il Rettore si rivolge ad Altis, l’Alta scuola della Cattolica che da pochi mesi avevo costituito. Ci lanciamo in questa avventura, che apre a nuovi orizzonti e porta a buoni risultati.

Ma dopo i primi anni si palesano due grossi problemi: i fondi necessari per ospitare in Italia gli studenti africani sono troppi e la crisi economica rende sempre più difficile reperirli; ma soprattutto i giovani africani, pur attentamente selezionati, fanno di tutto per rimanere in Europa. La qualità della vita europea è troppo attraente. Il risultato ultimo è agli antipodi di quanto auspicato: anziché formare i leader del futuro, si finisce per togliere ai paesi africani giovani di valore.

Un amico, incontrato proprio nell’ambito del Master, suggerisce la rivoluzione necessaria: non gli africani in Italia, ma il Master in Africa, per offrire un programma di alta qualità rivolto, se non a tutti, almeno alla nascente classe media. L’esperimento parte nel 2011 in Kenya, presso l’Università Cattolica della capitale Nairobi. L’obiettivo è originale: formare nuovi imprenditori attenti all’impatto sociale della loro azione. Il programma ha successo. Ma soddisfa più i clienti che noi stessi. Il Master è troppo simile a quello offerto in Italia. Occorre mettersi in discussione, lavorare con loro, generare qualcosa davvero adatto alle esigenze locali.

Nasce così, nel 2013, un nuovo programma. Prevede solo 40 giorni di aula per consentire all’imprenditore di non staccare mai dalla propria attività lavorativa. Accanto alle giornate d’aula compaiono le lezioni online (internet in Africa sta sviluppandosi a ritmi straordinari) e un consulente aziendale a disposizione per supportare l’affinamento dell’idea di business. I partecipanti sono di due tipi: per una metà sono ideatori, alle prese con lo start-up dell’azienda; l’altra metà è fatta di imprenditori già operanti, pronti a fare un salto dimensionale. Così concepito, il Master si impone. Gli ex alunni lo promuovono, il passaparola e i convegni attirano interesse sulla formula. Nel giro di due anni il Master, sempre gestito in partnership con università locali, si radica in cinque paesi: Kenya, Ghana, Uganda, Sierra Leone e Costa d’Avorio (il primo paese in lingua francese).

Jacqueline e gli altri
Ma chi sono davvero i protagonisti? E cosa succede a valle del Master? Incontriamone alcuni. Jacqueline Kiage arriva al Master di E4impact con l’idea di commercializzare in Kenya una gamma di lampade solari di nuova generazione. Ma dopo pochi mesi ha una brutta sorpresa: una catena di distributori di benzina leader nel paese le soffia il business. Jacqueline non si scoraggia e riparte. Suo marito è un chirurgo oculista presso un importante ospedale di Nairobi. Con lui progetta un’impresa sociale in grado di offrire servizi oculistici di alta qualità ad un prezzo accessibile alle comunità della regione sud-occidentale del Kenya. Lavora al progetto nei restanti sei mesi del Master e, ottenuto il diploma, si rivolge a numerose fondazioni. Raccoglie oltre mezzo milione di dollari e realizza il centro. A distanza di due anni ha assistito oltre 20.000 pazienti e si appresta a realizzare un secondo centro in una diversa area del paese.

Joseph Nkandu ha fondato ed è il direttore di Nucafe, un consorzio di cooperative di produttori di caffè che lavorano in 19 diversi distretti dell’Uganda. Dopo il Master, Joseph riesce a riunire 155 associazioni di produttori, raddoppiando il volume di prodotto commercializzato e assicurando a ciascun coltivatore un aumento delle entrate familiari. Susan Oguya è una giovane donna keniota che ha fondato M-Farm, portale internet e di servizi Sms che connette i piccoli agricoltori ai mercati finali, permettendo loro di accedere ad informazioni quali il prezzo al dettaglio dei prodotti, di trovare nuovi clienti, di acquistare le materie prime direttamente dai produttori saltando gli intermediari.

Stephen Eku, ghanese, è oggi a capo di un’azienda alimentare che trasforma latte e frutta. È tra i principali produttori di succhi di frutta, yogurt e latticini nel suo paese, e serve una rete di 3.000 rivenditori nella regione di Accra. Ad oggi il Master ha coinvolto oltre 300 imprenditori in cinque paesi che hanno creato almeno 500 posti di lavoro, senza contare i benefici connessi alle nuove competenze formate e alla nuova mentalità che si stanno diffondendo.

L’opportunità per l’Italia
Ma veniamo alle imprese italiane. Come si possono inserire in questo scenario? Innanzitutto occorre ricordare che, pur dentro grandi difficoltà, l’Africa sub-sahariana è tra le regioni più dinamiche del mondo, con una crescita economica negli ultimi 10 anni costantemente sopra il 5 per cento. Sebbene le nostre esportazioni verso quest’area siano più che triplicate negli ultimi 20 anni, passando dai circa 1,5 miliardi di euro del 1990 ai 5,7 del 2013, tali valori rappresentano ancora una quota limitata dell’export italiano (circa l’1,5 per cento), e sono concentrati in pochi paesi, soprattutto Sudafrica e Nigeria.

In questo contesto, offrendo una borsa di studio di poche migliaia di euro, un’impresa italiana può assicurare a un giovane africano di talento (o a una giovane, perché oltre metà dei partecipanti sono donne, e di gran valore!) l’opportunità di frequentare il Master. I benefici per il giovane sono evidenti, ma è anche l’impresa a “vincere”. Nel corso dell’anno di studi, il beneficiario della scholarship dedica più di 200 giornate ai progetti dell’impresa: ricerche di mercato, interviste a potenziali clienti e distributori, attività per predisporre una unità produttiva, sviluppo di relazioni, stesura delle proiezioni finanziarie e del business plan. Insomma, l’impresa esplora a un costo bassissimo le opportunità esistenti in un mercato africano ed entra in rapporto con un giovane esperto, formato secondo standard europei.

A questa formula hanno fatto ricorso già molte medie imprese italiane. Sipa, azienda del gruppo Zoppas specializzata nella produzione di macchine per la realizzazione di contenitori in Pet, ha coinvolto due studenti del Ghana per effettuare un’analisi di mercato nel paese. Sivam, con un catalogo di oltre 900 prodotti per la zootecnia e l’agricoltura, finanzia uno studente in Ghana per esaminare il settore bovino da latte nell’intera East African Community. Host, azienda di detergenti e sanificanti, ha identificato un imprenditore del settore in Kenya che frequenta l’Mba allo scopo di verificare la fattibilità di una partnership strategica con l’impresa italiana.

Noi siamo convinti che molte imprese italiane possano mettersi sulle orme di questi casi pilota (per avere più notizie, clicca qui). A un patto: che scelgano di operare nel contesto africano responsabilmente, con attenzione all’impatto sociale e ambientale del loro agire.

Verso la Fondazione
Nei mesi scorsi, un gruppo di protagonisti della vita economica italiana, si imbatte in E4impact. Immediatamente scorge come il progetto possa costituire una risposta, piccola ma emblematica, ai drammatici fenomeni che legano Africa ed Europa. Una risposta nuova, perché punta tutto sulla mobilitazione delle energie e sulle capacità della gente locale, a partire dai giovani. Il contrario dell’assistenzialismo e una nuova frontiera per le piccole e medie aziende italiane. Una risposta politica, perché costituisce una delle soluzioni del sistema Italia alla “bomba migratoria”. Si decide così di creare una Fondazione. La Fondazione, che vedrà tra i suoi fondatori l’Università Cattolica accanto a nomi di spicco dell’imprenditoria italiana, ha obiettivi ambiziosi: essere presente in 15 paesi entro il 2020, crescendo al ritmo di almeno due nuovi programmi all’anno.
Duemila imprenditori formati, 500 nuove imprese, 3.000 posti di lavoro, 250 docenti africani formati: questi gli obiettivi di un progetto nato per caso, ma rivelatosi profondamente allineato con le sfide odierne. Ben al di là dell’immaginazione dei promotori. 

L’autore di questo articolo è direttore Altis (Alta scuola impresa e società – Università Cattolica)

Foto Ansa

Tags: africaimpresaItaliakenyaLavoromasterMigrantiugandauniversità cattolica
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