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«Accoglienza? L’ho imparata per invidia». Parla Mireille, la “mamma” dei ragazzi di strada di Yaoundé

Intervista alla direttrice del Centro Edimar, casa dei senza casa della capitale camerunense. «La mia forza è un’amicizia che mi aiuta a guardare e amare quel che accade»

Alberto Perrucchini
04/05/2022 - 6:00
Società
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Mireille Yoga con alcuni ospiti del Centro Edimar a Yaoundé, Camerun
Mireille Yoga con alcuni ospiti del Centro Edimar a Yaoundé, Camerun (foto Avsi)

Come si ama uno sconosciuto? Cosa rende talmente liberi da accogliere un profugo in casa propria? Domande che non si possono evitare davanti alle migliaia di famiglie che in questi mesi aprono la propria casa e ospitano chi scappa dalla guerra. La storia di Mireille Yoga è quella di una donna camerunense che da anni accoglie e si prende cura dei poveri di Yaoundé. Lei è sposata ed è sostenuta da una letizia che traspare appena la si guarda in volto. Mentre parliamo, Johanna, una bambina di appena un anno che Mireille tiene tra le braccia, cerca di rubarle il microfono. Solo alla fine del nostro collegamento la piccola si addormenta. Johanna è un’orfana, Mireille l’ha trovata sul ciglio della strada e l’ha portata al Centro Edimar: una realtà con sede nella capitale del Camerun che accoglie chi è rimasto senza una casa né una famiglia e vive ai margini delle strade.

Mireille, qual è la tua storia?

Qualcuno mi ha chiamata, mi ha mostrato una strada per essere più felice. Quando ho compiuto diciotto anni non volevo più saperne di Dio né della preghiera: i miei genitori erano entrambi catechisti, mio papà ci faceva alzare tutti i giorni alle cinque per recitare il Rosario. Raggiunta la maggiore età, desideravo solo liberarmi da tutte queste regole. Tuttavia, adoravo cantare e ho accettato l’invito a unirmi al coro della mia parrocchia. Una volta alla settimana c’erano le prove e, fin dalle prime volte, ricordo di essere rimasta particolarmente colpita da due ragazze: arrivavano sempre insieme, e mi sorprendeva vedere quanto fossero unite. Le invidiavo perché anche io desideravo un’amicizia così; un giorno ho chiesto loro chi fossero. «Vieni e vedi», una risposta che a distanza di anni ricordo bene. Quel giorno le ho seguite in oratorio dove il parroco, padre Maurizio Bezzi, guidava un momento di catechesi con alcuni giovani appartenenti al movimento di Comunione e Liberazione. Mi sono fermata tutto il pomeriggio con loro. Mentre eravamo lì, sono entrati quattro uomini armati che cercavano da mangiare. La sera, però, tornata a casa, non pensavo ai banditi: avevo sentito per la prima volta qualcuno parlare di Gesù come di un uomo che potevo conoscere, vedere e ascoltare. Come si fa a essere così amici? Come si può essere tanto felici? Il mio cuore era stato toccato e ho iniziato a stare con loro.

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Da lì cos’è successo?

Mi sono sposata. Ben presto, però, ho scoperto che non avrei potuto avere figli: tutta la ricchezza che avevo visto in quel periodo sembrava non poter reggere davanti a questo dramma. Mi vergognavo di me stessa, non mi sentivo all’altezza del mio matrimonio perché non avrei mai potuto donare un figlio a mio marito. Pensavo alle parole del profeta Isaia: «Non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni». E mi chiedevo: ma se Dio è un amico, come può trattarmi così, abbandonandomi nella vergogna? «Guarda! Guarda quanti figli hai sulla strada», mi diceva continuamente padre Maurizio. Lui era arrivato in Africa nel 1991, e nel 2002 aveva fondato il Centro Edimar: una realtà nata per dare una casa ai tanti giovani di Yaoundé che vivono per la strada senza un posto dove stare. Io, piena di dolore per il figlio che non c’era, lo guardavo, provavo una grande invidia per un uomo che non aveva paura di accogliere chiunque. Sembrava che vedesse qualcosa che io non riuscivo a intercettare. A un certo punto ho ceduto, e ho iniziato ad accompagnarlo per le strade della nostra capitale. Stando con padre Maurizio, sono tornata a guardare quello che avevo intorno.

Un giorno un ragazzo di strada mi ha chiamata in disparte e mi ha minacciata col coltello: «Cosa ci fai qui?», mi ha detto. «È una donna che mi ha messo al mondo, che mi ha costretto a questa vita. Potresti anche essere stata tu». Il suo dolore era immenso. Ho subito desiderato che questo giovane, che mi stava minacciando, si lasciasse abbracciare, come un figlio che ha bisogno di una madre. Ho intuito che il problema non era il coltello, ma la sua scelta di fidarsi di noi, di lasciarsi accogliere. Era questa la maternità spirituale a cui mi invitava padre Maurizio.

Padre Maurizio però tre anni fa è tornato in Italia: cos’è cambiato?

Appena lui se ne è andato, mi è parso di trovarmi in un deserto. Io ero la nuova direttrice del Centro, ma mi sentivo persa. Guardando gli educatori e i ragazzi mi sembrava che nessuno si aspettasse più nulla. Cosa rimaneva di padre Maurizio? Quale eredità ci aveva lasciato? Chiedendo aiuto a tutti coloro che erano lì con me, ho iniziato a intuire che il regalo più grande che ci aveva fatto era un’amicizia che permetteva di guardare tutto quello che accade: un’amicizia tra noi e un’amicizia con Gesù, che padre Maurizio ci aveva quotidianamente testimoniato. Solo partendo da qui, avrei potuto continuare il mio lavoro senza paura, amando la realtà: non perché questa è sempre piacevole, ma perché è il luogo dove Cristo dimora. Accorgermi di questo mi ha permesso di tornare a guardare tutto quello che ancora stava accadendo davanti a me.

Per esempio?

Laual era un mio amico. Lui era malato ed è stato abbandonato davanti al nostro Centro. Abbiamo provato ad aiutarlo, ma l’ospedale chiedeva troppi soldi per le cure, non li avevamo. Laual è rimasto per quasi una settimana sdraiato per terra, in una stanza dell’ospedale di Yaoundé, senza che nessuno si preoccupasse di lui. L’ultimo giorno che l’ho visto era davvero pelle e ossa. Ho pregato e ho chiesto al Signore: “Perché mi fai assistere a una tale sofferenza? Perché mi fai vivere queste cose?”. Volevo gridare, denunciare l’ospedale, ma capivo che la tentazione era quella di scappare per non dover guardare Laual negli occhi. Mi sono venuti in mente i tanti amici che mi conoscono, che sostengono il lavoro del Centro e che ci fanno compagnia con la preghiera. Non potevo proiettare questi rapporti solo su di me. Occorreva che anche Laual potesse conoscerli, sentirsi accolto da loro. Mi ricordo che ho preso le sue mani perché anche lui potesse avvertire, in quel momento, la presenza di una compagnia vocazionale. Poi gli ho mostrato alcune foto di suo figlio che avevo sul cellulare. «Laual guarda!». Lui ha accarezzato lo schermo e ha sorriso. Il suo volto si è illuminato. Ecco cosa dovevo vedere: il suo sorriso. Per questo ero lì con lui in ospedale quel pomeriggio. Prima che me ne andassi, mi ha fatto promettere che sarei tornata presto per aiutarlo a lavarsi. Poco dopo essere uscita dall’ospedale, ho saputo che Laual era salito in cielo. Quel giorno ho visto accadere quello che ha vissuto Simeone quando ha incontrato Gesù: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli». Prima di andarsene Laual ha intravisto una speranza in questa vita. Era contento mentre si addormentava.

Tags: africacamerunComunione e LiberazionecristianesimoEducazione
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