
A Pupi Avati un David “agli antipodi del fighettismo”

94 anni e 60 film Clint Eastwood, 86 anni e 55 film Pupi Avati. Ormai il regista bolognese, che oggi riceverà il Premio alla carriera nel corso della 70esima edizione dei David di Donatello, può confrontarsi solo con i grandissimi.
«Dopo 55 film, arrivo sempre un po’ in ritardo su tutte le cose nella mia vita. Prendere un premio da vivo è un grande risultato, per i prossimi premi vediamo se riuscirò ancora ad essere vivo».
Tra il serio e il faceto è questo il commento a caldo rilasciato a LaPresse dal regista, che ha poi rilanciato così:
«Non ho mai preso un Leone d’Oro, un Oscar, quindi penso di avere ancora gli anni sufficienti a vincere questi premi a fine corsa».
L’Accademia del cinema italiano, intanto, ha reso nota la motivazione del premio: «Avati si immerge con incanto e magia nell’autobiografia emiliana e scava a tocchi leggeri, mai appariscenti, nell’inconscio piccolo borghese e rurale, traendo segnali di umanità dalle vite grigie, redente dalla poesia e dalla speranza».
Indagare il “mistero Avati”
Il regista è da poco tornato al cinema con L’orto americano, un raffinato thriller in bilico fra realtà e follia, incorniciato da un superbo uso del bianco e nero. Un film alla Hitchcock, «perché», dice Avati, «il cinema, come la pagina scritta, deve far immaginare: senza colori lascio gli spettatori più liberi».
L’orto americano, opera che il regista considera il punto di approdo della sua produzione («per la prima volta mi sono accorto che stavo facendo il cinema e non un semplice film») è l’ennesimo figlio legittimo della posizione eccentrica e anticonvenzionale di Pupi Avati all’interno della galassia del cinema italiano. Ed è solo indagando l’origine di questo decentrato e singolarissimo suo status – peraltro perfettamente cristallizzato da un episodio divenuto celebre: una cena al cospetto di Bellocchio, Bertolucci, Moravia e Pasolini, in cui al giovane Pupi scappò detto: «Io sono democristiano» – che nell’ottica del David alla Carriera si può provare a venire a capo del “mistero Avati”.
Il mondo dietro a “Pupi”
L’eresia incarnata dal regista ha radici profonde, in gran parte legata al genius loci di una bassa padana tutta sua, tante volte portata sullo schermo, e che il regista, da grande affabulatore qual è, ha squadernato mirabilmente nella frizzante presentazione del libro del giornalista e scrittore Massimiliano Perrotta Pupi Avati fuori dal cinema italiano, uscito per le Edizioni Sabinae. In una sala affollata del Museo etrusco di Roma, alla presenza dell’autore dell’opera e del critico cinematografico Steve Della Casa, Pupi Avati è partito dal suo nomignolo, Pupi, diminutivo di Giuseppe, di cui si è per lungo tempo vergognato, per poi allargare il campo al vero spirito delle sue origini.
«Anche dietro alla stessa scelta di questo piccolo nome», ha raccontato, «c’era una cultura, un mondo, dei genitori, dei nonni, delle zie, la campagna vissuta nel primo dopoguerra. C’erano le favole contadine terrorizzanti che ci raccontavano prima di andare a letto nelle camere scricchiolantissime».
«E poi c’era la chiesa»
Il regista di Dante, La casa dalle finestre che ridono, Bix, ha poi incantato gli astanti raccontando del clima religioso del suo tempo, della gratitudine per quell’“ingombrante” presenza della Chiesa, che con le sue liturgie in rito antico e i suoi silenzi ha lasciato spazio all’immaginazione, ingrediente primario sia dell’“impasto” familiare che del suo cinema. Queste le parole di Avati:
«E poi c’era la chiesa, l’educazione cattolica preconciliare, piena di inferno e di diavolo dappertutto. Ecco, avendo tenuto dentro di me con riconoscenza quell’immaginario che si è andato a formare laggiù, in quel tempo remoto, con una grande nostalgia. Perché allora non c’era niente, a parte i campi. E allora riempivi quel niente con l’immaginazione, col racconto orale, che era fondamentale. Magari alcuni dei miei parenti erano pressoché analfabeti, […] ma sapevano raccontare. E saper raccontare – come sapeva fare nostra madre, una narratrice fantastica, che da quando salivamo in macchina da via Saragozza a Bologna fino a Roma non si interrompeva un minuto – era una cosa preziosissima. Questa è l’Italia dalla quale vengo, che non aveva quasi nulla, ma aveva tantissimo, perché ti permetteva di immaginare, che oggi è una cosa quasi proibita».
Agli antipodi del fighettismo
Il suo candore assoluto e fuori dal tempo, Pupi Avati lo palesa nei momenti opportuni e meno opportuni. Lo scorso febbraio, per esempio, nel salotto televisivo di Fabio Fazio, bloccando improvvisamente la chiacchierata sul suo cinema, il regista si è rivolto al pubblico chiedendo di essere avvisato qualora qualcuno avesse trovato «una molletta con 780 euro» da lui perduti. «Quello che li ha trovati se per favore mi telefona», così Avati davanti al malcelato imbarazzo del conduttore, «perché con quei soldi dovevo comprarmi una giacca». Un episodio piccolo, ma che dice di una sua ontologica e irresistibile estraneità ad ogni convenzione.

Simpatizzando per i timidi, gli insicuri, persino per gli sfigati, il maestro bolognese si colloca “agli antipodi del fighettismo”; così recita uno dei capitoli del bel libro di Perrotta, finissimo conoscitore del mondo avatiano. Ma è proprio il suo stare dalla parte “sbagliata” ad aver permesso al suo cinema di rimanere attraente per decenni. Il regista lo spiegava a Caterina Giojelli in una memorabile intervista a Tempi:
«Così mi è bastato affermare di essere cattolico e votare Democrazia cristiana. L’ho fatto per difendermi e ho trovato nell’emarginazione una delle forme più efficaci per mantenere la mia identità».
«La cosa più bella del mio mestiere»
Se però c’è un luogo in cui la purezza avatiana si disvela maggiormente e arriva quasi a sublimarsi è nel rapporto con i “suoi” attori. «La cosa più bella di questo mestiere è la telefonata», racconta Avati in una chiacchierata con il direttore del Messaggero Alvaro Moretti.
«Quando chiami uno di questi attori che magari vive un momento in cui è fisso davanti al cellulare ad aspettare una chiamata e ti risponde incredulo, emozionato, felice, in lacrime, perché hai chiamato proprio lui. Quel momento di felicità che regali è impagabile».
In questo senso nel David alla carriera che oggi riceverà (la diretta è su Rai 1 mentre la conduzione è affidata all’inedita coppia Elena Sofia Ricci-Mika) sono idealmente presenti tutte le epifanie avatiane, volti che con lui hanno scoperto (o riscoperto) la ribalta. Su tutti Carlo Delle Piane, strappato dal binario morto dei caratteristi. Poi Diego Abatantuono, che smetterà con l’invito di Pupi Avati di fare il gestore di locali per tornare a recitare in quel capolavoro che è Regalo di Natale (film in cui anche Alessandro Haber acquisterà una luce nuova). E così anche per i debutti di Vanessa Incontrada e Neri Marcorè (Il cuore altrove).
«La sera parlo con i morti»
Come il protagonista del suo ultimo thriller, L’orto americano, anche Pupi Avati parla con i morti, almeno quelli che più l’hanno amato. Più volte il regista ha raccontato di questa sua singolare abitudine, ma nell’ottobre scorso il coinvolgersi in ciò che la Chiesa chiama “Comunione dei santi”, Avati l’ha voluta ribadire ai microfoni di Radio Maria, in una testimonianza a briglie sciolte (rintracciabile in questa pagina, dal minuto 42). Queste le sue parole:
«Devo ritrovare i miei cari le persone che mi hanno voluto bene. Quindi tutte le sere, prima di addormentarmi, dico i loro nomi. Ho un elenco sul mio computer di tutte le persone che mi sono state care, di tutti coloro che mi hanno aiutato a essere quel poco che sono, che non si sono girati dall’altra parte quando ho chiesto aiuto. Ecco, queste persone, diventate quasi 250, sono diventate il mio Rosario, e mi sollevano, mi rinfrancano e spazzano via quell’angoscia che altrimenti un uomo della mia età dovrebbe avere».
«Più praticante che credente»
Nello stesso radiofonico affondo spirituale, colui che nei suoi film ha diretto tanti personaggi umiliati e offesi, prigionieri e oppressi, non poteva non approdare alla figura del Nazareno. Ha confessato Avati:
«Sono un lettore quotidiano del Discorso della montagna. Credo che nessuno abbia mai pronunciato sulla terra parole di conoscenza, di affetto e di vicinanza così definitive e così profonde come nelle Beatitudini. La nostra vera Costituzione dovrebbe essere quel Discorso, perché è commovente pensare che un ragazzo della Galilea di tanti di tanti secoli fa abbia immaginato possibile una convivenza umana che in qualche modo preludesse al Paradiso».
C’è voluto tempo, ma il David alla carriera arriva finalmente nelle mani di qualcuno che non solo è fuori da “circoletti” e “amichetterie” ma, per usare un suo superbo calembour, non è «ateo e di sinistra, ma credente e praticante. Anzi, più praticante che credente».
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