
A chi muore di fame serve sviluppo economico, non lotta al cambiamento climatico

Quello che segue è il sesto di una serie di articoli firmati da Bjørn Lomborg e pubblicati da Tempi in esclusiva per l’Italia in vista della Cop26, la conferenza globale sul clima in programma per novembre 2021 a Glasgow. Lo scopo di questa rubrica è mettere in luce dati scientifici spesso trascurati nella narrazione dominante sul clima, eppure non meno importanti del fatto che «il cambiamento climatico è un fenomeno reale e causato dall’uomo», come sostiene Lomborg.
Le puntate precedenti sono disponibili qui.
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L’Organizzazione mondiale della sanità stima che il cambiamento climatico provocherà 250 mila morti in più ogni anno nei due decenni successivi al 2030, per la maggior parte tra le popolazioni povere del mondo. L’Oms ha confrontato il mondo reale con un mondo immaginario nel quale non c’è cambiamento climatico, e ha calcolato la differenza nel numero di morti per malnutrizione, malaria, diarrea, febbre dengue, alluvioni e caldo. Il maggior killer è di gran lunga la malnutrizione, responsabile di 85 mila morti in più nel 2050.
Comprensibilmente, la reazione immediata di molti a tale previsione è che dovremmo darci da fare per mettere fine al riscaldamento globale anche se questo costerà. Ma una parte meno pubblicizzata dell’analisi dell’Oms evidenzia il motivo per cui questo potrebbe danneggiare i poveri più che aiutarli: l’effetto dello sviluppo economico.
Come si può vedere nel grafico qui sopra, le morti per malnutrizione sono drasticamente diminuite nel corso degli ultimi tre decenni, e nei prossimi tre continueranno a calare rapidamente. Ciò è in parte dovuto alla crescente resa delle colture agricole, che con il riscaldamento globale seguiterebbe ad aumentare, solo in maniera leggermente più lenta – con l’esito, nel 2050, di 85 mila morti che potrebbero non esserci se le temperature rimanessero fisse. Ma la causa principale della diminuzione delle morti per malnutrizione è la crescita economica, che consente alle famiglie di acquistare più alimenti a prescindere dai raccolti. Questo mette nella giusta prospettiva l’effetto del cambiamento climatico: il cambiamento climatico per quanto riguarda l’alimentazione non è un disastro, ma un fattore che può rallentare leggermente il progresso.
Il futuro può essere perfino più positivo di quello mostrato nel grafico, che è solo lo scenario di crescita economica media elaborato dall’Oms. Quest’ultima infatti ha previsto anche che cosa significherebbero una crescita bassa e una alta in termini di morti per malnutrizione: nel primo scenario (crescita bassa, ndr) ci sarebbero in tutto due milioni di morti per malnutrizione nel 2050; nel secondo (crescita alta, ndr), ce ne sarebbero 300 mila. Politiche favorevoli alla crescita possono quindi risparmiarci 1,7 milioni di vittime ogni anno. È molto di più di quanto possa fare qualunque provvedimento sul clima.
Nemmeno le regolamentazioni più rigide eliminerebbero il riscaldamento globale, potrebbero cioè al massimo prevenire alcune delle 85 mila morti previste. E una volta in vigore, questi provvedimenti rallenterebbero la crescita economica, condannando un maggior numero di persone a restare povere. L’Accordo di Parigi sul clima è fatto in modo da mantenere nella povertà 11 milioni di persone in più al 2030 di quante ce ne sarebbero altrimenti. Se la Conferenza di Glasgow a novembre dovesse portare all’adozione di provvedimenti sul clima molto più forti [di quelli di Parigi], i decisori politici finirebbero per ingrossare quel numero, portandolo a 80 milioni di poveri in più entro il 2030, cosa che causerà inevitabilmente anche più morti per malnutrizione.
Il cambiamento climatico merita la nostra attenzione, ma i decisori devono essere realistici. Quello che protegge davvero i poveri del mondo dalla malnutrizione è uscire dalla povertà. Non certe costose regolamentazioni sul clima.
Foto Ansa
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