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A Baku c’è perfino un “parco dei trofei” dove si coltiva l’odio verso gli armeni

Che cosa aspetta la comunità internazionale a tutelare il battito del cuore del popolo armeno oppresso da azeri e turchi? Chi impedirà il prossimo genocidio?

Renato Farina
14/05/2021 - 15:59
Magazine
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Bambina gioca con manichino di militare armeno nel "Parco dei trofei" della guerra nel Nagorno-Karabakh a Baku, Azerbaigian

Dai dintorni del lago Sevan, dove noi molokani siamo armeni tra gli armeni, vi scrivo il primo di maggio. Ho l’impressione stavolta di mettere questa mia lettera a voi amici italiani in una bottiglia e di gettarla nell’Oceano della Storia, come minuscolo messaggio a futura memoria. E chissà se quando Tempi metterà su carta le mie parole, e magari le leggerete, sarò sereno come ora pur nella pena. O magari derelitto, in fuga, nel pianto come Israele in esilio a Babilonia. Non sto tragediando, come dicono in Sicilia. Il rumore delle spade si sente, fa tremare le principesse argentee e sussultare le acque del lago. Il vento porta lo sferragliare dei blindati, non ancora, per fortuna, il sibilo dei missili. Che cosa aspetta la comunità internazionale a porsi in mezzo, a tutelare il battito del cuore del mio popolo armeno?

Quelli non si fermano. Negare il genocidio armeno del 1915 non è una questione di ignoranza storica, è la premessa ideologica per rifarlo. Significa mettere le mani avanti sulle conseguenze di questa guerra aggressiva degli azeri contro l’Artsakh (il nostro Nagorno-Karabakh). Per questo Erdogan si solleva contro chi – come Biden – riconosce formalmente l’Olocausto. 

Un’offesa sanguinosa all’umanità

Ci sono segnali di offesa a oltranza. Di semina dell’odio e del disprezzo fisico e spirituale. A Baku funziona come uno zoo dei mostri e delle scimmie il “Parco dei trofei di guerra”. È una mostra di feroce pedagogia per una futura strage. I fantocci di soldati armeni sconfitti, manichini di cera, sono presi a pizzicotti da bambini festanti, mentre il casco dei caduti è esposto come uno scalpo. Sono inermi e sconfitti, degradati in una eterna piazzale Loreto, con il “naso armeno” per imprimere nella memoria la fisionomia, come accadde agli ebrei, con la raffigurazione stereotipata di certi connotati, che la storia ci ha insegnato a riconoscere come timbro per autorizzare “soluzione finali”. È un’offesa sanguinosa all’umanità, ed è il colmo che in Caucaso ci sia giunta la notizia che il Vaticano abbia premiato solennemente per meriti culturali alte autorità azere che sostengono questo scempio. Com’è possibile? Di certo il governo azero non si vergogna e fa sapere che il parco «è un luogo di educazione per le generazioni presenti e future sui pericoli di una politica di aggressione e intolleranza e fornisce il luogo per cercare la verità». La verità sta nei fatti. 

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Il 26 aprile l’esercito dell’Azerbaigian ha avanzato le sue posizioni per 370 metri nel villaggio Nor Ghazanchi, regione di Martakert in Nagorno-Karabakh, oltre la linea di demarcazione dell’accordo di cessate il fuoco trilaterale. Poi i russi, che vigilano (ma per quanto?) hanno ristabilito la linea concordata. Il 25 aprile le forze di occupazione azere hanno impedito l’ingresso di 25 pellegrini armeni al monastero di Dadivank, violando l’accordo raggiunto con la mediazione dei caschi blu russi secondo cui i fedeli armeni possono entrare liberamente ed eseguire cerimonie religiose. Non è il solo caso. 

Che c’entriamo noi molokani, di antico sangue russo? Come disse Pio XI degli ebrei, «siamo spiritualmente semiti», così noi siamo spiritualmente, ma pure carnalmente, armeni. Così spero lo siate voi che mi leggete. Siamo fratelli tutti. Certo: lo sono anche gli azeri, che pure ci hanno dato guerra, e detengono centinaia di prigionieri e non ce li vogliono restituire, militari e civili, mentre notizie tremende ci segnalano atrocità e assassini. Fratelli tutti, anche Caino era fratello, di sicuro. E lo resta dopo il fratricidio…

Il perdono di Myriam

Ah, com’è devastante la guerra… Il bene lo si raccoglie con il cucchiaino e il male a secchi. Sappiamo per certo, come ci dice il Vangelo, che dobbiamo perdonare, non ci sono vie di mezzo. Non sono capace. Mi immedesimo più volentieri con Pietro che estrae la spada e taglia l’orecchio al servo del sommo sacerdote che non con Cristo stesso, che quell’orecchio riattacca. Mi verrebbe da dire: riattacca pure, o Signore, il padiglione auricolare degli aggressori, ma prima lasciami tagliare le orecchie al nemico che ferisce il mio popolo. Lo so che non funziona così. Vorrei imparare da Myriam, cristiana di 12 anni perseguitata a Qaraqosh, che dice in perfetta letizia di perdonare gli islamici e di chiedere perdono, perché Dio ama tutti. Da quella boccuccia sorridente sgorgava un tale fiotto di pace da irrorare il mondo. Spero che lambisca la mia terra.

Perdonare dunque, accettare di essere perdonati… Con la volontà non riesco, ma è l’amicizia con quella bambina lontana, anche se lei non mi conosce, che rende possibile un miracolo impossibile all’umana natura.

Tags: armeniaazerbaigiangenocidio armenonagorno-karabakhtempi maggio 2021Turchia
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