È probabile che ci stiano già lavorando sopra i pubblicitari di partito, i pr dei politici, gli specialisti di make-up delle campagne elettorali. Tuttavia è una buona idea, anzi l’unica praticabile: basta con l’odio per l’avversario. Mettiamoci d’accordo per mettere fuori legge gli intolleranti, quelli che organizzano pranzi con preghiera “laica” perché il Nemico venga fulminato da un brutto male, o almeno da un avviso di garanzia. L’Italia ha perso tempo prezioso e avvelenato energie che avevano bisogno di ben altri alimenti, nutrendole a merendine di odio concentrato. Un metodo che avverso da sempre, per temperamento: ero piccolo durante la guerra, l’ho guardata da vicino, ed è una contemplazione che ti vaccina dall’odio. I soldati (a differenza di molti pacifisti ideologici) non odiano mai, neanche quando sparano, e neppure i bambini che hanno guardato i soldati da vicino amano l’odio. A parte il privilegio di essere cresciuto tra le sparatorie, mi mette al riparo dall’odio la mia professione di psicoanalista. L’odio per l’altro, quel sentimento velenoso che nulla perdona, che è sempre in agguato a spiare l’altrui caduta per braccarlo, distruggerlo, rovinarlo, nasce da un conto mai regolato con aspetti della tua personalità (che intuisci, ma non osi mai veramente dichiarare a te stesso) che ti di-sgustano. Per questo cadono vittime dell’odio più spesso i “puristi” che le persone consapevoli dei propri lati poco encomiabili, che a tratti lasciano anche trasparire. I regimi dell’odio più pervasivo sono sempre nati da persone che insistevano molto sulla propria natura integerrima e sui propri princìpi. Quando Romano Prodi ha fatto i suoi incontri televisivi giocando tutto sulla propria “serietà” contrapposta sprezzantemente alla visione dell’avversario, definito un ubriaco che delira abbracciato a un lampione, ce l’aveva certo con Silvio Berlusconi, ma ad accendere quel disprezzo era l’orrore per i propri lati tutt’altro che indiscutibili, per la propria disponibilità a liquidare ogni rigore pur di mantenere il potere. Tutta roba poi divenuta cronaca quotidiana. Viceversa Giovanni Leone, uno dei personaggi della Prima Repubblica più alieni alla diffusione dell’odio, apriva a Roma gli esami di diritto con la famosa rassicurazione agli studenti: «Qui un caffè e un diciotto (con l’accento sulla i, alla napoletana) non lo si nega a nessuno». Nulla di particolarmente educativo, ma almeno neppure intossicante.
Perché questo è il guaio maggiore dell’odio: rappresentando un proprio aspetto inconscio, che viene proiettato e condannato in un altro, si fa implicitamente proposta di metodo, spinge a fare altrettanto, intossicando così l’intero corpo sociale. Anche nelle riflessioni fatte a sinistra sull'”antipatia”, così presente in quello schieramento, qualcosa di questo è però finalmente filtrato, e del resto Vilfredo Pareto aveva già detto tutto mettendo in guardia, nei primi del Novecento, dal “mito virtuista”.
Rinuncia all’odio significa dunque, però, riconoscimento della propria ombra mascalzona, non per darle un lasciapassare a vita, ma per controllarla, e smetterla di proiettarla sull’altro. Se nella prossime elezioni si affermasse questo stile, personale e politico, in Italia potrebbero cambiare molte cose.
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Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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