Pubblichiamo la rubrica di Alfredo Mantovano contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Huggies non è il nome di un corso di teologia né di un trattato di diritto naturale: è un’azienda che produce pannolini per neonati. Come ogni impresa, affronta il mercato innovando i prodotti e pubblicizzando le novità. Ha inventato una linea per i bambini e una per le bambine, e ha diffuso uno spot che descrive il prodotto sottolineando la naturale diversità fra maschio e femmina, e quindi la differente parte del corpo che fa la pipì, di cui il pannolino – azzurro o rosa – tiene conto nella sua conformazione.
La semplice descrizione della distinzione uomo/donna fa scattare la protesta su vari siti, scandalizzati per un richiamo del genere e – previo ricorso – provoca una pronuncia del garante per la pubblicità, l’Istituto per l’autodisciplina pubblicitaria, che ingiunge a Huggies di desistere dal mantenimento in onda dello spot «perché – si legge nel provvedimento – violerebbe gli articoli 10 e 11 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale». L’articolo 10 prescrive di «evitare ogni forma di discriminazione, compresa quella di genere»; l’articolo 11 impone una cura particolare «nei messaggi che si rivolgono ai bambini».
L’Osce e numerosi studiosi – fra tutti, Massimo Introvigne – hanno da tempo insegnato che alle persecuzioni a causa delle proprie convinzioni, anche di ordine etico o religioso, non si arriva dalla sera alla mattina: la persecuzione, che richiama qualcosa di violento e di diretto, è ordinariamente preceduta dall’intolleranza e dalla discriminazione. Applichiamo queste categorie alla famiglia: “famiglia” al singolare, quella dalla quale viene e nella quale è cresciuto ciascuno di noi. L’intolleranza in Italia è iniziata da decenni (l’anno-simbolo è il 1968), e ha fatto prosperare una “cultura” piena di modelli di riferimento a essa alternativi: dalle fiction alla letteratura, fino alla scuola. La vicenda di Huggies conferma che siamo entrati nella fase della discriminazione: il “caso Barilla” non è stato sufficiente, e neanche la demonizzazione di Dolce per una mezza frase sul fatto che nasciamo tutti da un padre e da una madre; qui non ci si trova di fronte a una minaccia di boicottaggio, ma a una formale censura proveniente da un organismo rappresentativo delle realtà che in Italia si occupa di pubblicità: una inibizione che di fatto pone fuori dal recinto dei “corretti”. E perché? Per aver ricordato con garbo che lui e lei fanno pipì in modo diverso, e che questo non è il solo elemento di distinzione fra i due.
L’occasione di esigere libertà
Oggi in Italia tocca a una azienda che produce pannolini; in altre nazioni, dal Regno Unito al Canada, passando per gli Stati Uniti, è colpito il pasticcere che rifiuta di confezionare una torta nuziale alla cui sommità ci sono due lui o due lei, o il fioraio che lavora solo per i matrimoni fra persone di sesso diverso, o il laureato in giurisprudenza nel cui college si ricorda che si chiama matrimonio l’unione fra un uomo e una donna. Domani – non un domani ipotetico – interesserà il genitore che al docente manifesta dubbi sui corsi “di gender” impartiti al figlio; l’insegnante che si sottrae a imposizioni ministeriali che vanno in tale direzione; il catechista o il sacerdote che nella preparazione a un sacramento o in seminario ricordano le differenze antropologiche fra uomo e donna; il giornalista che non sta ai parametri descrittivi del “gendericamente corretto”; il magistrato o l’avvocato o l’assistente sociale che si ostinano a ritenere che un bambino viene su meglio se educato da una mamma e da un papà.
Non è in gioco la religione, è in gioco la libertà: quella di formare una famiglia, di non vedersi osteggiati in questa scelta, di educare i figli secondo la propria cultura e la propria coscienza. Sabato le famiglie italiane sono scese in piazza San Giovanni a Roma per esigere questa libertà, dal cui rispetto dipende il futuro dell’Italia.