Il Corriere della Sera ha aperto l’edizione milanese con la notizia dell’ennesima controversia. «La comunità cinese di Milano, in vista dell’Expo, chiede al Comune due “Paifang”, due archi tradizionali all’inizio e alla fine di via Paolo Sarpi, per valorizzare la Chinatown cittadina. L’associazione ViviSarpi raccoglie le firme contro il progetto».
Come si sa, Expo è una manifestazione internazionale. Che male c’è se una laboriosa e tranquilla comunità cittadina si prepara ad accogliere i tanti stranieri che verranno all’Expo nelle forme che la contraddistingue in tutte le capitali del mondo, dalla chinatown di Londra a quelle di New York, San Francisco, Sidney o l’Avana?
Sono anni che il tristanzuolo comitato di quartiere di via Paolo Sarpi racconta la storia che «la massiccia attività all’ingrosso della comunità cinese degrada il quartiere». E da anni, qualunque sia il colore politico del sindaco e della giunta che governa Milano, gli amministratori della città fanno a gara a rendere impossibile la vita e i commerci dei cinesi. Telecamere a ogni angolo, valangate di multe, polizia comunale che staziona in permanenza davanti ai negozi dei “gialli”.
Strano, vogliono costruire a Milano una grande moschea in vista dell’Expo e le istituzioni cittadine battono la ritirata da certe vie periferiche (come via Padova) dove al calar del sole scatta una specie di “coprifuoco” per via di una massiccia e talora prepotente presenza di extracomunitari disoccupati.
Strano, i rom accampati ricevono finanziamenti e protezioni istituzionali per la loro singolare propensione al rifiuto di ogni integrazione e pratiche come l’occupazione abusiva delle case popolari e la riduzione dei minori ad accattoni. Invece, la comunità cinese, che, come tutti noi, ha pure i suoi bei difetti e problemi di legalità, ma che nella sostanza è tranquilla, solidamente ancorata al commercio e al lavoro, la si considera una fastidiosa e “degradante” presenza. Da cacciare. Ma vogliamo dimenticare che il cognome “Hu” ha da tempo scalzato il “Brambilla” dai primi posti dei patronimici milanesi? E poi, sapete cos’ è via Sarpi?
Al tempo della Moratti, che sposò la linea dura del comitato ViviSarpi e voleva cacciare i cinesi in periferia, i negozianti d’origine orientale risposero esponendo sulle vetrine dei loro negozi tanti piccoli manifestini gialli. “Vivere è legalità”. “Lavorare è legalità”. “Siamo milanesi anche noi”. La Signora, infine, dovette rassegnarsi. Dopo la destra al caviale, arrivata la sinistra al “risotto arancione”; con l’assessore Pd Majorino è ancora braccio di ferro legale (con ricorsi pendenti al Consiglio di Stato), perché i cinesi considerano (giustamente) una vessazione discriminatoria il fatto che i loro orari di scarico delle merci siano differenti e compressi rispetto a quelli di tutti gli altri commercianti.
Vedremo come finirà. Ma come si dev’essere ormai capito, a noi questi cinesi stanno simpatici. E ci stanno simpatici perché, conoscendoli un po’ per via che per molti anni abbiamo battuto a piedi Paolo Sarpi, lunga via semipedonale percorsa per andare al lavoro, non abbiamo mai capito la ratio di chi li ha presi di mira. Ma se sono una comunità di commercianti perché li volete cacciare via?
D’accordo, c’è questa storia del “rispetto delle regole” e del grigio abitare altrui. D’accordo, Sarpi significa il perenne viavai di camioncini e scatoloni, di famiglie e bambini che si chiamano l’un l’altro e vociferano ad alta voce (mentre gli italiani sono pochi, anziani e trascinano i loro vecchi cani a fare pipì per strada). Però, come già al tempo della Moratti mi spiegò una barista «la storia delle “regole” è una scusa, vogliono solo mandarci via». E aggiunse: «Ma se ce ne andiamo noi, questa via è morta». Tutto vero. Perché se vuoi trovare in città delle belle facce devi andare nella via dei cinesi, mica nelle discoteche.
In verità, la Sarpi è forse l’unica via della Milano bene dove la gente ancora lavora come si lavorava a Milano ai tempi in cui la nostra gente veniva su dalle Puglie e veniva giù dal Veneto. C’è più Italia (e molto, ma molto, meno degrado) in Chinatown che non sull’asse viale Certosa-Corso Sempione, diviso in tre tronconi, quello periferico, prostituto e scambista che parte dal cimitero di Musocco; quello di mezzo, di transito del terziario statale che va dalla Rai alla caserma militare dismessa di Piazza Firenze e infine quello che si affaccia sull’Arco della Pace che, a partire dalle otto di sera, si popola di fighetti della famosa, alcolica, rumorosa “movida”.
Ecco, se si paragona questa Milano – che è poi la stessa che trovi sotto lo skyline della stazione Garibaldi, a san Babila, a piazza santo Stefano o lungo i Navigli o nei giardini di San Lorenzo – con quella dei cinesi che tengono viva la fiaccola dei commerci al minuto e all’ingrosso nella zona che va da Piazza Baiamonti a via Procaccini, con la Sarpi che fa da aorta al grande cuore giallo, si capisce quanto è stupida, inutile e controproducente per Milano questa crociata anti Cina.
Ma non sappiamo più altro che dire “tutti devono rispettare le regole”? È così ovvio che pare miserando continuare a ribadirlo. Ma certo che “tutti devono rispettare le regole”. Eppure, niente è più strano di questo vuoto siderale creato dalle galline legalitarie in una città intelligente, veloce, pratica come Milano. Con questi geniali super commissari e super poliziotti alle “regole” finirà che faremo una figura di palta all’Expo? Chissà.
Resta il fatto che dobbiamo fare l’Expo, mica la vetrina della legalità. Perciò, per favore, di quelle quattro bandiere stinte e affumicate dallo smog di ViviSarpi, che protestano in nome delle “regole” e della “vivibilità”, fatene stracci. E buttatele nei casonetti. Fate girare i commerci e portate lavoro. Avanti a fare Milano. E basta con questa muffa dei “no”. Questo è Expo. Lavoro, commercio e danè. Anche sotto i “Paifang”.