«Occorre finirla con l’esclusione dai Sacramenti dei divorziati risposati», «il partenariato di omosessuali e lesbiche deve trovar posto nella Chiesa», «la Santa Famiglia non appare affatto come modello ideale». Queste sono solo alcune delle opinioni espresse da circa 6.000 cattolici della Svizzera, che hanno partecipato tra febbraio e marzo a numerosi dibattiti presinodali, organizzati a partire del questionario su matrimonio e famiglia inviato dalla Santa Sede a tutte le Conferenze episcopali. Questi dibattiti sono stati riuniti in 570 rapporti, condensati in un breve documento di sintesi che la Conferenza episcopale elvetica invierà in Vaticano in preparazione del Sinodo ordinario sulla famiglia di ottobre. Se alcune prese di posizione da parte dei fedeli hanno destato stupore in Italia, in Svizzera «lo stupore è stato molto minore», dichiara a tempi.it Cristina Vonzun, che si occupa di informazione religiosa per il Giornale del Popolo, quotidiano cattolico del Canton Ticino.
La maggioranza della popolazione in Svizzera è ancora cattolica, ma a leggere il rapporto si direbbe un cattolicesimo molto diverso da quello che si insegna nel catechismo.
Il rapporto in realtà parla innanzitutto del «largo apprezzamento di cui godono gli ideali di matrimonio e famiglia come annunciati dalla Chiesa». Certo, poi si sottolineano i «limiti di realizzazione».
Però c’è una bella differenza tra il contenuto del documento e quello del magistero attuale della Chiesa su quasi tutti i temi spinosi toccati dal Sinodo.
Su diversi temi, lo scollamento è molto visibile, ma non è esclusivo della Svizzera: è proprio del cattolicesimo del centro/Nord Europa.
Quali sono le sue cause in Svizzera?
Si è prodotto negli anni soprattutto a nord delle Alpi. Credo che si faccia sentire l’influsso del protestantesimo, laddove le Chiese cantonali riformate approvano la benedizione delle coppie gay, ad esempio. Ma il problema principale è la lunga secolarizzazione, di decenni, che comporta questo scollamento tra i valori cattolici creduti e la vita pratica, oltre a portare a una privatizzazione della fede. La fede è ancora riconosciuta come una cosa vera, però a livello privato. Poi c’e un terzo motivo che aumenta la fatica delle famiglie e che magari genera rotture matrimoniali.
Quale?
Le circostanze economico-sociali di oggi, tra le quali anche i tempi lavorativi intensi, mettono in difficoltà le famiglie, che faticano a vivere il matrimonio. Soprattutto se sono da sole, senza qualcuno che dia indicazioni e proponga un cammino di fede.
Le conseguenze sono quelle che si leggono nel rapporto pubblicato dalla Conferenza episcopale.
Sì, anche se bisogna dire che il rapporto è stato compilato in modo particolare. Si tratta delle opinioni di 6.000 cattolici, tra uomini e donne. Però in Svizzera i cattolici sono in tutto tre milioni, circa il 38 per cento della popolazione. Non sono indagini fatte con criteri tali da poter campionare perfettamente l’opinione dei cattolici svizzeri.
Sta dicendo che è stato fatto male?
Io penso che rifletta la tendenza di quello che pensa la maggior parte dei cattolici in Svizzera, soprattutto a Nord delle alpi. Ma non è una vera e propria inchiesta, bensì un questionario libero: lo fa chi ha qualcosa da dire. Molti non l’hanno fatto e non sappiamo e non sapremo mai la loro opinione. La tendenza comunque c’è, non si può negare, non a caso il documento non ha suscitato particolari reazioni. La tendenza di maggioranza è questa, però non è esclusiva. Ci sono anche tanti cattolici che vivono gli ideali del matrimonio fino in fondo. La verità è che la Svizzera è complessa.
Cioè?
Ci sono realtà diverse dal punto di vista linguistico e culturale. Questo rapporto dipinge bene, soprattutto, la realtà della Svizzera tedesca, meno quella della Svizzera italiana e romanda. Qui da noi, in Ticino, la tendenza è nettamente diversa, ad esempio.
Come fa a dirlo?
Il Giornale del Popolo ha verificato un largo campione di risposte che sono arrivate dai cattolici del Ticino e non c’è traccia dei toni di rivendicazione e delle opinioni opposte rispetto al magistero della Chiesa. Qui le prime due priorità rispetto alle famiglie sono altre: la preoccupazione per le coppie che vivono isolate, con poche altre con cui confrontarsi e vivere assieme la fede. E la preoccupazione per la mancanza di rapporti tra famiglie anziane e giovani. C’è il desiderio di favorire i rapporti tra coppie di generazioni diverse, come dice anche papa Francesco.
E sul problema dell’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati?
Anche in questo caso nessun tono di rivendicazione. I divorziati che hanno risposto al questionario, hanno detto che si sentono accolti nella Chiesa perché fanno un cammino nelle loro parrocchie. Per quanto riguarda la comunione ai divorziati risposati, in generale c’è chi ha espresso la speranza che dal Sinodo si dia il permesso di studiare percorsi penitenziali molto personalizzati, assolutamente caso per caso, fatti per le singole persone e affidati al discernimento del vescovo. Qualcosa che assomiglia alla proposta del cardinale Kasper.
A proposito, i vescovi elvetici la pensano come la maggioranza dei loro fedeli?
Il documento non è scritto dai vescovi, ma è una lettura sociologica delle opinioni dei fedeli rielaborata dall’Istituto San Gallo, che ha raccolto e ordinato i dati. I nostri vescovi la pensano da vescovi, fedeli al Papa, a Roma, al Magistero e in cammino con il Sinodo.
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