Per una singolare coincidenza, la notizia dello scambio di embrioni impiantati dopo una fecondazione artificiale, avvenuta all’ospedale Pertini, ha seguito di qualche ora la decisione della Corte costituzionale di demolire un pezzo residuo della legge 40, permettendo l’eterologa.
È evidente che le due cose non sono sullo stesso piano: quanto accaduto nel nosocomio romano è un tragico errore, mentre avere figli ricorrendo al seme di “donatori” è frutto di una scelta. E però proprio quell’errore ha fatto emergere i profili fortemente critici di procreare bambini che, in tutto o in parte, hanno il patrimonio genetico di altri: dalla identificazione della paternità e della maternità in chi si sa che discende da altri, alla conoscibilità del o dei donatori, alla ipotesi – che in alcune nazioni si è giunti a vietare – che il padre possa disconoscere chi non sente suo, alle laceranti crisi di identità dei nati da eterologa, che emergono con violenza negli inevitabili contrasti adolescenziali all’interno della famiglia.
All’errore di un ospedale si può rimediare con pazienza e responsabilità da parte di chi ne subisce le conseguenze: e c’è da pregare il Signore perché continui a dare forza a quella madre e a quel padre. Quel che sarà impossibile arginare sono gli effetti non di un errore, bensì di una sequela di decisioni consapevoli di mettere al mondo figli di altri, resa possibile dalla pronuncia della Consulta. È una opzione di libertà, che pone fine a una odiosa diseguaglianza?
L’esperienza dei paesi nei quali da tempo l’eterologa esiste va nella direzione opposta e descrive drammi familiari che non si compongono. D’altronde è arduo risolvere la schizofrenia di un mondo che si oppone ideologicamente alla modifica genetica del seme del mais e altrettanto ideologicamente gioca nei laboratori con i semi dell’uomo.