«Ci tengo a dire una cosa: io non provo nostalgia per Muammar Gheddafi, perché era un dittatore. Ma lo conoscevo bene, aveva molti lati positivi e da noi ha fatto tanto». Quando dice “da noi”, Angelo Del Boca intende la Libia. Il massimo storico del colonialismo italiano è nato a Novara ma conosce quel paese come le sue tasche e a 89 anni vi è ancora così legato che, dice, «mi sembra casa mia». Parlando a tempi.it di una crisi libica che precipita inarrestabile con l’avanzata dello Stato islamico e le minacce all’Italia, il direttore della rivista di storia contemporanea I sentieri della ricerca e autore di decine di libri non nasconde «imbarazzo e dolore», anche se ammette: «Mi aspettavo che sarebbe finita così».
Perché?
Da tempo vedo la situazione della Libia peggiorare sempre di più. Subito dopo la caduta di Gheddafi, si sono creati due governi, le diverse tribù hanno ricostruito le loro frontiere: siamo tornati alla tribalizzazione di due secoli fa.
Era meglio il regime rispetto a questo caos?
Non si può avere nostalgia di un dittatore e io li ho odiati tutti: bianchi e neri. Gheddafi ha avuto momenti terribili, sguinzagliava i suoi squadroni della morte per uccidere i rivali. Io ho documentato nei miei libri gli assassinii che ha commissionato a Milano e Roma.
Però?
Però l’ho conosciuto, incontrato personalmente più volte, a me ha dato l’intervista più lunga di tutta la sua vita e ho scritto su di lui un libro di oltre 400 pagine. E dico che Gheddafi aveva lati positivi: intanto ridistribuiva tra la gente gran parte dei proventi del petrolio ed è merito suo se i libici avevano un reddito pro capite superiore a tutti gli abitanti dell’Africa e vicino a quelli europei. In più ha stabilizzato il Paese.
In che modo?
Gheddafi veniva da una tribù ridicola, appena tremila persone. Ce n’erano altre di 90 o 100 mila persone. Lui ogni anno viaggiava per giorni andando a incontrare tutti i leader, con i quali intratteneva rapporti personali. È così che ha tenuto insieme un groviglio di tribù per 42 anni arginando gli islamisti, cosa che noi non abbiamo capito e qualcuno ha finto di non capire quando ha deciso di attaccarlo.
Si riferisce all’intervento della Nato del 2011?
Certo. La Francia di Nicolas Sarkozy (l’allora presidente, ndr) è responsabile degli incidenti di questi giorni perché ha promosso una guerra con lo scopo di estromettere gli italiani dalla Libia e inserire Total al posto di Eni. Era un gioco evidente e non so come abbiamo potuto non capirlo, partecipando per giunta a un conflitto che ha causato migliaia di morti e danni per 35 miliardi di dollari. Ma ci sono anche altri due errori.
Quali?
Gheddafi andava processato, non ucciso in quella maniera, e chissà quante cose interessanti sarebbero uscite anche contro l’Italia o Sarkozy. Il terzo errore, il più recente, è quello di non aver inviato Romano Prodi quando il premier libico ha chiesto lui come mediatore tra le diverse fazioni. Mi dispiace, ma il commissario Onu che poi è stato nominato al suo posto, Bernardino Léon, non è in grado di far dialogare le parti in conflitto.
Lei ha pubblicato di recente un appello nel quale chiede di scongiurare una seconda guerra di Libia. Perché l’ha scritto?
Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha parlato di inviare cinquemila uomini. Ma siamo impazziti? Neanche nel 2011 sono state usate truppe di terra. Sarebbe un massacro, un disastro. Anche perché non abbiamo truppe specializzate capaci di fare la guerra contro i fanatici di quei territori.
Pensa che la Libia possa uscirne da sola?
No, assolutamente no. Noi dobbiamo impegnarci ma serve uno sforzo di pace, non di guerra, come ho scritto nell’appello. L’unica alternativa, per me, è un intervento con il benestare dei due governi di Tripoli e Tobruk, insieme all’Onu e all’Unione Africana. Bisogna includere anche Egitto, Algeria e Marocco. Questa è la missione che deve promuovere l’Italia.
Perché dopo la caduta di Gheddafi la Libia è piombata nel caos?
La Libia non era pronta ad avere una democrazia. Anche questi due governi non sono democratici, ma affastellati, non danno garanzie. Il benessere che la Libia ha conosciuto con Gheddafi per 42 anni è andato a scapito della democrazia, che era molto carente. Il Paese non ha neanche una Costituzione. Il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, ne stava scrivendo una. Ma ora lui è in carcere e il padre è morto.
Foto Gheddafi da Shutterstock