Il colonnello a riposo dell’Esercito svizzero Joseph «Sepp» Blatter (Visp, 10 marzo 1936) ha fatto molte capriole nella sua vita, però almeno su un argomento ha mantenuto la barra al centro: l’idiosincrasia nei confronti di noi italians. Per lui siamo sempre brutti, sporchi e cattivi, proprio come Nino Manfredi in Pane e cioccolata. È stato il primo presidente della Fifa, nella storia della Coppa del Mondo, a non presentarsi sul palco della premiazione a consegnare la Coppa al vincitore. Berlino, 9 luglio 2006. Per giustificare la sua assenza ha consumato le unghie sui vetri. L’ultima versione, forse, è quella giusta, ma solo fino a «vincere»: «L’Italia non meritava di vincere, perché le hanno regalato un rigore contro l’Australia». A onor del vero non si è presentato neanche dopo la finalina per il terzo posto, a Stoccarda, vinta dalla Germania sul Portogallo, in questo caso facendo intendere che i tedeschi lo avevano fischiato alla partita inaugurale e lui non si faceva fischiare due volte. In finale mandò Lennart Johansson, presidente Uefa prossimo alla defenestrazione; un anno dopo al suo posto assurgeva Michel Platini con cui il colonnello ha stretto un patto d’acciaio. In pubblico fingono di essere distanti, si punzecchiano, in privato si appoggiano reciprocamente. Come nel 1998, quando il sodale Joao Havelange guidò l’assemblea favorendolo nella successione contro Johansson (il giorno prima favorito, il giorno dopo trombato) Blatter manovrerà (in teoria nel 2015) per lasciare la cadrega a Platini.
La caratteristica principale di Sepp Blatter sono le lingue (ne parla almeno 6, italiano compreso), le medaglie e le contorsioni. Il 18 novembre 2011, se ne uscì raccontando che il razzismo sui campi da gioco non esisteva. «È una sciocchezza». Qualche giorno fa ha promesso penalizzazioni e retrocessioni per quelle squadre le cui tifoserie si mostrano razziste, ma non aveva avuto dubbi a bacchettare il calcio italiano quando il Milan aveva abbandonato il campo al seguito di Boateng offeso per i «buuh» lanciatigli contro a Busto Arsizio. Eh già, perché il motto della sua vita di dirigente calcistico è «the show must go on». Si può fare tutto, ma non fermare il pallone (e di conseguenza il tassametro).
Ha più onorificenze di un generale sovietico al termine della Grande Guerra Patriottica, tra cui spiccano «Cavaliere di V Classe dell’Ordine di Jaroslav il saggio» (Ucraina) e «Gran Croce dell’Ordine di Francisco Mirando» (Venezuela). La sua forza è stata sempre questa, mischiare calcio e politica, con il primo che apriva le porte della seconda. «Portiamo il calcio ovunque», il motto della sua Fifa. Ha galleggiato alla grande su tutta una serie di scandali. Gli ultimi hanno riguardato le accuse a Bin Hammam (Qatar), suo avversario all’ultima elezione nel 2011, fatto fuori (squalifica a vita) prima del congresso con l’accusa di corruzione e poi assolto dal Tas di Losanna e la scoperta che la Isl, società di marketing sportivo, avrebbe pagato tangenti ad alti dirigenti Fifa per la commercializzazione dei Mondiali anni Novanta. Blatter ha ondeggiato ma è ancora lì. Alla Fifa dal 1977, come direttore tecnico, segretario dal 1981, è diventato presidente l’8 giugno 1998. Come John Edgar Hoover, si mormora che abbia un archivio segreto su tutto e tutti. Ma il tempo scorre impietoso e il colonnello a riposo sta per compiere 77 anni. I tedeschi, che non sono italiani e non dimenticano, l’hanno nel mirino. Il presidente del Bayern, Uli Hoeness ha detto che «per lui l’aria è sempre più pesante».
Ha cambiato la regola sul fuorigioco (oggi è sufficiente che una parte del corpo del calciatore si trovi più vicina alla linea di porta avversaria rispetto al pallone e al penultimo difendente), tolto la possibilità, al portiere, di prendere la palla con le mani su retropassaggio, introdotto i 3 punti a vittoria. Prima di andarsene vorrebbe passare alla storia per avere introdotto la tecnologia nel calcio, con i sensori sulla linea di porta. Arriverà al 2015? C’è chi dice che si farà immortalare con l’ultima onorificenza in Brasile e poi lascerà a Platini. Come i generali russi mai sazi di medaglie, Sepp ha ancora uno spazietto sul gessato. Più lo mandi giù e più si tira su. Non vederlo più gongolante ai sorteggi (le cerimonie, sono una grande passione), appare un’ipotesi veramente fantascientifca.