
Zanzotto, l’ultimo dei petrarchisti rovinato da Lacan
Andrea Zanzotto, morto martedì scorso, è stato un maestro di scuola media negli istituti della sua terra, una posizione, contemporaneamente, defilata e di coraggiosa militanza, che riflette la pendolare attitudine della sua poesia verso la cosiddetta realtà storica.
In una meravigliosa ecloga, la nona, affronta in versi la difficoltà della propria vocazione pedagogica («Vengono i bambini, ma nessuna parola/troveranno, nessun segno del vero»), corredandola di una descrizione toccante e immaginifica degli scolari: «Ma che dirai a quelle anime di brina,/di arnia, a quel festante grappolo,/che intorno al tuo cuore s’ingloba, e stordisce/di curiose energie la pur schiusa/aula che dà sul mai stabile greto?». La Storia, rappresentata, in un passaggio acremente comico di Alla stagione, come una pazza pavoncella dal verso esemplare, «clio, clio», felice onomatopea e nome della musa della storiografia, è il nemico numero uno dei poeti lirici, con la sua inveterata tendenza a stanarli dalle loro torri di avorio, speculare alla tendenza dei poeti lirici a sottrarsi alla temporalità, a segregarsi in una liturgica routine di gesti e parole estranei alle mode e alla consunzione connessa al trascorrere del tempo.
Una certezza del poeta lirico, che può porlo al riparo dalle aggressioni della Storia, è sicuramente costituita dalla sua identità, dal sensus sui, ma cosa succede quando la coscienza di sé di uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, dotato di straordinari doni lirici, si sgretola («pronome che da sempre a farsi nome attende,/mozza scala di Jacob, io», «Un senso che non muove ad un’immagine,/un colore disgiunto da un’idea,/un’ansia senza testimoni […] questo è l’io che mi desti, madre» per offrire una rapida campionatura di versi tratti dalle prime raccolte, dove il dettato poetico è più coerente e plasticamente pregnante) e va in mille pezzi?
Al suo esordio, nel segno della parola oracolare degli ermetici, Luzi e Gatto in primo luogo (una moda si opinerà, ma Zanzotto complica la propria genealogia letteraria con innesti surrealisti, in particolare, di Lorca e Eluard) il numero di sparizione gli riesce perfettamente: una manciata di versi e la Storia è estromessa dal paesaggio alpino che fronteggia la seconda entità dominante della raccolta, il poeta con la sua spasmodica ansia conoscitiva.
È alla altezza della terza silloge poetica, Vocativo, composta dopo un interludio di crisi depressiva, che si registrano i primi cedimenti della coscienza di sé di Zanzotto e i primi sintomatici avanzamenti della Storia con accenni di poesia ecologica: «Come i cavi s’ingranano a crinali./i crinali a tranelli a gru ad antenne/e ottuso mostro/in un prima eterno capovolto/il futuro diviene».
Il punto di massima tensione prima della rottura è raggiunto in IX Ecloghe, raccolta che non casualmente presenta una ecloga in meno rispetto alla famosissima opera di Virgilio, una sigla di intima irresolutezza, un non-finito, che conclama la natura aporetica del rapporto con la tradizione e la conseguente preclusione della “letterarietà” come asilo dalla Storia e dalle sue colpevoli effrazioni ai danni della lingua.
Tensione metalinguistica, alienazione, consapevolezza storica deflagrano in La Beltà, dove Andrea Zanzotto, sotto l’influsso dello psicanalista Lacan, mette a punto una sorta di informale poetico che, testimoniando della approfondita crisi personale e civile, costituirà il punto di ripartenza delle esperienze successive fino al recentissimo Conglomerati.
Vorrei soffermarmi brevemente sulla prima stagione della poesia di Zanzotto, i cui estremi cronologici potremmo fissare con un po’ di flessibilità in Dietro il paesaggio e IX Ecloghe. Nonostante la critica sia concorde nel ritenere La Beltà il suo capolavoro, non posso negare un personale rimpianto per quello che il poeta Nelo Risi, in una sua intervista, ha definito con una formula efficace «l’ultimo dei petrarchisti» che, sempre secondo Risi, si è «fatto rovinare da Lacan», vale a dire il Zanzotto della “prima stagione”, come l’abbiamo sbrigativamente indicata. Il rutilante repertorio figurativo, l’incandescenza lirica, la compattezza tematica e stilistica, non ancora frammentata nella ridda plurilinguistica di associazioni della scrittura automatica, la capacità di assimilare le fonti, già riscontrata da tutti i critici, rendono memorabili i versi di queste raccolte e il Veneto di Zanzotto, a metà tra il realistico e il fantastico, con i suoi cicli stagionali, si iscrive nella nostra geografia interiore: il suo veemente “vocativo” va a segno, dritto al cuore e alla mente di noi “ipotesi leggente”.
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