Volete una vita piena di amore e di soddisfazioni? Fate come me, costruite muri

Di Luigi Amicone
16 Luglio 2020
Mai lavorato tanto come in questi mesi di febbre pipistrellina, o Covid e Sars come si dice. Sei ore al giorno addosso al muro. Un’ora in letture. E un’altra a sfilettare la rubrica di Tempi

Articolo tratto dal numero di luglio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Lo so che in una rubrica di giornale certe cose non si scrivono. Ma noi siamo nati in controtendenza, dunque è giusto che scolpisca qui il più incisivo e imperituro risultato di tre mesi di lockdown in quel di Gallura. Un muro di trenta metri ristrutturato e stuccato da cima a fondo. Tempo impiegato: circa due mesi, alla media di sei ore di lavoro al giorno. Strumento principe: sac à poche ovviamente non per alimenti ma per calce cemento e malta. Ho pure acquistato per l’occasione un trabattello, improvvisandomi muratore a due metri d’altezza.

Il muro è costituito di pietre di granito irregolari. Talvolta posate alla rinfusa e fermate con sassi e terriccio. Anche a secco, ha sempre fatto il suo bel mestiere di muro di cinta. Credo da un mezzo secolo a questa parte. Poi mia moglie mi ha detto: «Hai del tempo, è ora di ripulirlo dalle vespe che non ci puoi neanche parcheggiare sotto un’automobile tante sono».

Così, a lavoro di “riordino” avviato, un giorno una signora che risiede in cima al paese, transitando nel luogo del mio faticare e complimentandosi per il bel mestiere, si è ricordata che «le pietre di questo muro le ha spaccate mio padre. Faceva lo spaccapietra a quei tempi. Tutte le sere tornava a casa con la schiena dolente e chiedeva a noi figli di camminargli sopra per massaggiarla». Dal che si capisce che i sardi arrivarono un bel po’ prima delle massaggiatrici cinesi e thailandesi.

Ho iniziato i lavori al principiare di maggio e ho finito il 28 giugno. Su quel muro – stento ancora a crederci ma è così – ci sono finiti più di venti sacchi di calce mista a cemento. E dato che ciascun sacco pesa 25 chilogrammi e va impastato con un tot di sabbione fine, calcolo di aver impiegato per il nuovo muro – bello, stuccato, ripulito – almeno mezza tonnellata di calce cemento e sabbione. Spero che tenga. Adesso però per sicurezza mi attrezzerò per passare il resto dell’estate a scavare in giardino canali per il drenaggio dell’acqua. Non vorrei che con le stagioni che non sono più quelle di una volta viene giù un diluvio e tira giù il muro.

Devo dire che sono stati tre mesi bellissimi. Non c’era in giro anima viva e le notizie dal continente arrivavano così attutite che mi è stato interessante poterle riflettere e guardare con una certa distanza. Non ho mai lavorato tanto in vita mia come in questi mesi di febbre pipistrellina, o Covid e Sars come si dice. Sei ore al giorno addosso al muro. Un’ora in letture. E un’altra a sfilettare la rubrica di Tempi. Settantadue puntate la fase uno. La fase due deve ancora finire.

Ma ritornando al muro. Sono entrato per osmosi nel mondo minerale e animale, con qualche puntatina nel vegetale. Ho familiarizzato con le vespe cementiere che, come sapeva mia moglie, risiedevano a nugoli entro le cavità delle pietre. E ho scoperto nel sottopietra una varietà di lucertola che somiglia a una biscia: una lucertola grigia che scansa il sole come io ho cercato di scansare le teste di topini morti che gentilmente la coppia di gatti marci a cui davo da mangiare mi recapitavano in giardino in segno di riconoscenza. Tra l’altro uno dei due – il più brutto felino del mondo e probabilmente il più scacciato – è stato ribattezzato da mia moglie “Centrifugato”, perché non ha un colore preciso ma ha il pelo tutto arruffato e color di una vasta varietà di beige che sembra uscito da un bucato venuto male, stinto e ricombinato con colori mischiati in modo anarchico. Per di più, il “Centrifugato” dall’aria del bruttissimo perennemente scansato e scacciato dai suoi simili e tanto più dagli ominidi, ha la caratteristica di essere zoppo e scarnificato sulla zampa sinistra posteriore (ho poi scoperto una mattina che c’è un gatto quasi più brutto di lui che gli fa la posta e appena lo vede lo aggredisce con piglio tigresco).
L’altro felino è invece una magrissima gatta che ci ha scodellato e svezzato durante il lockdown due gattini. Una femmina magra che è l’esatta copia della madre. E una specie di pachiderma, maschio, grosso il doppio e fifone strepennato che appena fruscia qualcosa nell’aria corre a infilarsi nel primo buco o cespuglio che trova.

Fantastico granito

Durante le giornate del meriggiare pallido e assorto non ho però visto file di formiche, tanto meno rosse, di quelle che il Montale si immaginava rompersi e intrecciarsi a figura di «minuscole biche». Ho registrato incroci con poche formiche, per lo più minuscole e addossate ai rimasugli biologici di bestiole morte e imputriditi sotto le pietre.

Da vicino, molto da vicino avendo gli occhi guardinghi a non ricevere blocchi di granito tra capo e collo, ho raccolto cofanate di terra argillosa che veniva giù da tutti i fori. Il granito è una pietra fantastica. Dura ma spaccaminosa (scusate l’onomaturgia), si fa plasmare più di quanto non immaginiate. D’altra parte, il mio metodo di plasmazione è stato elementare: mazzetta da un chilo e giù a picchiare fino a trovare di forza l’incastro se il sasso risultava troppo grosso per la cavità.

Una volta sola ho avuto un incidente serio, causato dalla superficialità di non indossare l’occhiale da sub, come mi aveva argutamente suggerito di fare mia moglie mentre picchiavo la pietra, onde proteggermi il viso dalle schegge. È andato tutto ok, tranne quando ho pensato: «Hai solo questo sasso da picchiar dentro, non vale la pena di star lì a scendere dalla scala per recuperare la maschera da sub». E taaac, la scheggia aspettava solo il mio pensiero da pigro per infilarsi giusto tra la palpebra e il bulbo oculare. Non voleva uscire neanche a spruzzare acqua corrente, girare, rigirare, strizzare l’occhio. Un dolore appuntito. E soprattutto, un senso di impotenza che non ho provato neanche col carcinoma polmonare (tranne la prima notte dopo lo squartamento, beh, lì devo dire che si faticava a respirare).

Lasciate perdere le leggi Zan

Mi è venuto in mente un giorno a casa di Norberto Bobbio. Giuro, testimone Renato Farina. Quel grande filosofo e nume tutelare della patria italica che confessava che con tutta la sua filosofia non riusciva a dare un senso al mal di denti. Però non auguro a nessuno la scheggia di granito tra palpebra e occhio, che non puoi sollevare il ciglio che una lama sembra ti punga a fondo l’iride.

E dire che è sempre così. Mia moglie ha sempre ragione. E siccome è così, non le do quasi mai ascolto fino in fondo, giusto per poterle rinfacciare che «non hai sempre ragione». E invece succede sempre qualcosa che, se non avessi una moglie che ha imparato al volo una manovra che le ha suggerito al telefono l’oculista, non so proprio come sarebbe finita. Immaginate: con lockdown, in Sardegna, il primo pronto soccorso ospedaliero a un’ora e mezza di auto dal muro. Sarei ancora lì. A stramazzare ogni sera e a sognare le fughe da riempire. A sognare il granito. E a lamentarmi delle mani gonfie e l’occhio del pirata bendato. Pirla. Per non aver dato retta alla moglie. Alla moglie e buoi dei paesi tuoi.

Tutto qui. La gente non si sposa e non sa quel che perde. Come minimo l’incitamento ai lavori di casa. Volete costruire una vita d’amore, comprensione, accoglienza, rispetto, qualunque sia il diverso, afroamericano, omo, lesbo, trans, suocera? Lasciate perdere le leggi del Mancino e del Zan. Costruite muri. E i ponti vi saranno dati in abbondanza.

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